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Nov 29 2012

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LE DEGUSTAZIONI D’AUTUNNO DEL SEMINARIO VERONELLI

BAROLO CANNUBI 2008, PROSECCO Brut vs Extra Dry, PANORAMICA DELLA VALLE D’AOSTA, SYRAH DI TOSCANA 2009, ES: TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SUL PRIMITIVO (MA CHE NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE), ETNA ROSSO

BAROLO CANNUBI 2008
ll vitigno
Considerato tra i grandi cinque vitigni rossi mondiali, il nebbiolo rappresenta una delle grandi sfide enologiche per identità e difficoltà di vinificazione. I primi documenti storici che parlano di questo vitigno risalgono all’inizio del trecento, con la famosa opera del bolognese Pier de’ Crescenzi, ma è solo a partire dal XIX secolo che il Nebbiolo viene frequentemente citato nelle opere dei più famosi ampelografi. Il suo nome, secondo alcuni, deriverebbe da “nebbia” in quanto i suoi acini sembrano quasi annebbiati dall’abbondante pruina, mentre secondo altri sarebbe da mettere in relazione alla tardiva maturazione delle uve che obbliga sovente a vendemmiarle all’epoca delle prime nebbie autunnali.
La spiccata variabilità fenotipica del Nebbiolo ha portato ad assegnare a questo vitigno denominazioni diverse nei differenti luoghi di coltura e a definire nel territorio albese alcune sottovarietà, la cui distinzione e stabilità era considerata tale da far prevedere nei disciplinari di produzione l’impiego o l’esclusione dell’una o dell’altra. La docg Barolo deve infatti essere prodotta con Nebbiolo delle sottovarietà Lampia, Michet e Rosé. In effetti è alla sottovarietà Lampia che vanno ricondotti tutti i sinonimi, compreso il valtellinese Chiavennasca, essendo il Michet una mutazione genetica del Lampia dovuto a virosi ed il Rosè un parente di primo grado del genotipo Lampia.
Grappolo medio o anche grande, di forma piramidale allungata, alato, un po’ compatto, spesso presenta un’ala molto pronunciata; acino medio, rotondo ma con tendenza all’ellissoide. Buccia sottile ma resistente, di colore violaceo scuro, molto pruinosa da sembrare grigia.
È un vitigno a maturazione lenta, predilige zone con elevate somme termiche e con buona luminosità, anche se teme il sole cocente, soffre l’umidità e le piogge primaverili che possono causare filatura e colatura, è sensibile all’oidio ma ha una buona resistenza alla peronospora e alla muffa grigia. L’uva Nebbiolo si distingue dalle altre varietà italiane ed internazionali per la composizione del suo quadro polifenolico: è un’uva ricca di tannini più che di antociani, anche se questi ultimi risultano composti da elementi non particolarmente stabili all’ossidazione, con conseguenti difficoltà di vinificazione che si rivelano superiori rispetto ad altri vitigni destinati alla produzione di grandi vini rossi.
Viene coltivato in Valle d’Aosta, Piemonte e Lombardia. Produce i più nobili vini rossi piemontesi come il Barbaresco ed il Barolo, in provincia di Cuneo; in altre province piemontesi produce: Boca, Bramaterra, Carema, Fara, Nebbiolo d’Alba, Roero, Gattinara e Ghemme, in Valle d’Aosta il Donnas e l’Arnad Montjovet; in Lombardia il Terre di Franciacorta rosso e tutti i grandi vini rossi della Valtellina con le quattro sottozone (Sassella, Grumello, Inferno, Valgella) e lo Sforzato o Sfurzat da uve appassite. Nel mondo troviamo produzioni negli Stati Uniti (non soltanto in California ma anche in New Mexico, Arizona, Pennsylvania, Idaho, Oregon, Virginia e Washington), in tutta l’Australia meridionale compresa l’isola di Tasmania, nel cuore della Constantia Valley, nel lembo più meridionale dell’Africa, nelle regioni settentrionali del Northland, una delle isole che compongono la Nuova Zelanda, ai piedi della cordigliera delle Ande, in Svizzera e in Austria.

UNITÀ DI BAROLO
Localizzazione: è la più estesa ed è suddivisa in quattro ambiti territoriali; a sud-est di Verduno, da Barolo a Castiglione Falletto, a nord-est di Castiglione Falletto fino a Grinzane Cavour e ad est di Monforte d’Alba.
Litologia: marne di S. Agata fossili. Marna e marna argillo-siltosa grigia, talora azzurrognola, grigio biancastra in superficie, plastica e omogenea.
Paesaggio: rilievi collinari formati da coste simmetriche strette e allungate, semplici o articolate secondo angoli retti. Crinali sub-pianeggianti e versanti a profilo lineare con repentini cambiamenti di esposizione.
Cannubi è la collina lunga e gradualmente crescente posta all’ingresso del comune di Barolo.
La sua storicità è tangibile e le prove sono innanzitutto in una bottiglia che porta la scritta “CANNUBI 1752”, la più antica che si conosca nella Langa. Tale prezioso cimelio sta a dimostrare come il Vigneto Cannubi fosse già famoso e valutato ancor prima dell’avvento del vino Barolo.

Il clima dell’annata 2008
La realtà vinicola regionale si presenta agli antipodi rispetto a quella 2007. Già l’inizio dell’anno era stato caratterizzato da una situazione climatica più rigida, ma nonostante questo l’avvio del ciclo colturale era in anticipo rispetto a un andamento normale. Sono stati i mesi di maggio e giugno a segnare decisamente il cambiamento, a causa di un clima freddo e piovoso, perdurato per un lungo periodo e accompagnato in qualche caso da grandine e venti piuttosto forti. Questo ha rallentato sensibilmente il ciclo produttivo ed ha comportato un ritardo calcolabile tra i 10 e i 20 giorni secondo le varietà. Dopo la metà di agosto, il tempo si è ristabilito e si sono ricreate le condizioni ideali per un’ottimale invaiatura e per accompagnare l’uva verso una maturazione senza problemi. Le gradazioni zuccherine delle uve sono state buone, ma non eccessive, migliori per le uve che si sono vendemmiate più tardi (vini rossi).

I risultati della Degustazione
Diciamo subito che siamo tra coloro i quali ritengono che la collina di Cannubi sia una e indivisibile; riteniamo anche che il Comune di Barolo, anziché spendere denaro pubblico in questioni che non gli competono, dovrebbe – e avrebbe dovuto – occuparsi meglio dell’amministrazione del suo territorio impedendo che si costruissero nelle sue vallate gli orrendi capannoni prefabbricati e, proprio sulla cima della collina di Cannubi, uno degli emblemi del vino più famoso d’Italia, delle disgustose abitazioni a forma di pagoda. Dimenticando che fu proprio Cannubi a mostrare le sue insegne su una bottiglia di vino nel 1752, ben prima che Barolo prendesse la paternità dei vini ivi prodotti.
Cannubi è la collina lunga e gradualmente crescente posta all’ingresso dell’abitato di Barolo; sorge dalla pianura a 220 metri s.l.m. per toccare i 320 metri alla sua sommità; nonostante quel che spesso ci capita di leggere, non si trova assolutamente alla confluenza dei suoli tortoniani ed elveziani, ma fa parte integralmente di un’Unità di paesaggio geologico formato dalle Marne di Sant’Agata, perché per trovare le Arenarie di Diano bisogna salire parecchio verso Castiglione Falletto e Monforte d’Alba.
A tal proposito sarebbe bene che gli amministratori e gli amministrati consultassero lo studio del territorio di Barolo promosso e pubblicato dalla Regione Piemonte nel novembre del 2000.
Ed è proprio dalle Marne di Sant’Agata, dalle esposizioni da sud-est a sud e fino a sud-ovest e dalla moderata altimetria, che le uve di nebbiolo si caricano di aromi dolci e maturi, di spezie morbide e fragranti e di tannini fini e succosi; ma è poi la sapienza e maestria dei vignaioli e dei cantinieri a far emergere nel Barolo dei Cannubi tutta la sua complessità, la sua misura, la sua eleganza e, importantissimo, la sua prontezza. I Barolo Cannubi 2008 sono dei vini già perfettamente pronti per il consumo; regalano maturità e rotondità appena rallegrate da un pizzico di tannini placidi e miti, adatti anche a quei palati internazionali, ovvero ai nuovi consumatori del mondo, che mal sopportano spigoli e aggressività.
La nostra degustazione, ricca di ben dieci etichette, ha fornito un quadro incoraggiante per il Barolo Cannubi 2008, con una qualità molto alta ed una personalità schietta ed autentica; il nostro pubblico ha incoronato esplicitamente, e quasi all’unanimità, il Barolo Cannubi Boschis 2008 di Luciano Sandrone, appena contrastato da un apprezzatissimo Barolo Cannubi 2008 di Damilano. Eccellenti tutti gli altri vini che hanno raccolto comunque significativi consensi da parte del pubblico, il quale ha tardato ad abbandonare i calici ormai quasi vuoti.
Come tutti i luoghi che si rispettino, anche Cannubi ha una sua colorita e combattuta querelle, e in apertura ve ne ho dato un leggerissimo accenno, ma la sua cronistoria la potrete leggere solo sul prossimo numero de Il Consenso, assieme alle dettagliate note di degustazione della serata.
G.B.

I Soci Slow Food presenti hanno così votato:

Carlo Giupponi: Barlolo Cannubi-Boschis di Luciano Sandrone, Barolo Cannubi di Damilano e Barolo Cannubi e Barolo Cannubi di
Maurizio Andreini: Barlolo Cannubi-Boschis di Luciano Sandrone, Barolo Cannubi 2008 di Damilano e Barolo Cannubi e Barolo Cannubi 2008 di Paolo Scavino;
Silvio Magni: Barlolo Cannubi-Boschis di Luciano Sandrone, Barolo Cannubi dei Poderi Einaudi e Barolo Cannubi dei Marchesi di Barolo

 

PROSECCO

Deriva dall’antico vitigno autoctono chiamato Pucinum dai Romani, e la tesi che si tramanda fin dal XVI secolo, a seguito degli studi di Volfango Lazio, è che sia originario delle colline carsiche dove esiste una località omonima (Prosecco) ed un vitigno del tutto simile denominato Glera.

Nella provincia di Treviso, e in particolare nell’area di Conegliano Valdobbiadene, ha trovato l’habitat ideale fin certamente dal Settecento: risale infatti al 1773 la prima citazione ad opera del Villafranchi di questo vitigno tra quelli coltivati nella zona di Conegliano.

Storicamente iscritto nel registro nazionale dei vitigni come Prosecco, ha assunto il nome botanico Glera a far data dalla pubblicazione del decreto 27 marzo 2009 (GU n. 146 del 26-6-2009 ) Modificazioni al registro nazionale delle varietà di viti.

Una necessità resasi indispensabile per tutelare a livello comunitario ed internazionale il nome Prosecco a difesa dalle imitazioni e indicandolo quindi non più come nome botanico ma come nome del vino ad uso esclusivo delle zone a Denominazione di Origine.

Grappolo medio-grande, piramidale allungato, alato, spargolo. Acino medio, sferoidale con buccia pruinosa, sottile ma consistente, di colore giallo dorato, leggermente punteggiato.

Predilige terreni collinari, non troppo asciutti, zone senza ritorno di freddo in primavera. La forma di allevamento per eccellenza è a controspalliera con potature invernali lunghe; necessita di potature estive.

Scarsamente sensibile a marciume acido, sensibile a oidio e peronospora. Poco resistente alle brinate primaverili e alla siccità estiva.

Il Conegliano Valdobbiadene, riconosciuto DOCG nel 2009, è un vino prodotto esclusivamente nel Nord-Est d’Italia all’interno di un’area delimitata che comprende 9 province, situate tra il Friuli Venezia Giulia ed il Veneto, con alcune varietà di vitigni locali.

Il più importante è il Glera, il quale garantisce la struttura base al vino di Conegliano-Valdobbiadene, ma possono essere utilizzati in piccola parte Verdiso, Perera e Bianchetta, varietà locali considerate minori ma preziose per completare la struttura del vino, oppure gli internazionali Pinot e Chardonnay. Il Conegliano Valdobbiadene viene prodotto con un minimo dell’85% di uve del vitigno Glera e, per un massimo del 15%, delle altre varietà citate.

Il Conegliano Valdobbiadene DOCG è prodotto nelle tipologie Spumante, Frizzante e Tranquillo. Lo spumante è la versione simbolo della denominazione ed è prodotto nelle versioni Brut, Extra Dry e Dry a seconda del residuo zuccherino presente.

Brut – È la versione più moderna e internazionale. Si caratterizza per profumi d’agrumi e di note vegetali e crosta di pane, unita ad una bella e viva energia gustativa. Il residuo zuccherino va da 0 a 12 g/l.

Extra dry – È la versione tradizionale. Il colore è paglierino brillante ravvivato dal perlage. È ricco di profumi di frutta, mela, pera, con un sentore d’agrumi che sfumano nel floreale, al palato è morbido e al tempo stesso asciutto grazie ad un’acidità vivace. Il residuo zuccherino va da 12 a 17 g/l

Il risultato della degustazione

I tifosi dei due schieramenti rimarranno delusi, perché ieri sera lo scontro tra Brut e Extra Dry è finito nel più totale ed inoppugnabile pareggio. Nessun vincitore, quindi, nessuna supremazia e nessun trionfo. Il pubblico di ieri sera è stato messo a dura prova perché si è reso conto che con questi vini le differenze sono piccolissime, poco percettibili, e solo per riuscire a trovare il proprio vino preferito occorre assaggiare, riassaggiare, meditare e riprovare più volte per riuscire ad esprimere un giudizio che subito dopo si rimette in discussione.

Certo, la nostra selezione non ha favorito i degustatori perché abbiamo scelto case prestigiose quali Adami, Bellenda, Carpenè Malvolti, Col de’ Salici, Ruggeri; abbiamo scelto le loro migliori espressioni di Brut ed Extra Dry, restringendo di conseguenza lo spazio di differenziazione stilistica e qualitativa.

Ma c’è di più: occorre, infatti, riflettere un poco sulla questione del residuo zuccherino di questi vini, perché i temi che entrano in gioco sono tanti. Proviamo brevemente ad annotarli. Sappiamo che l’uva Prosecco (ora chiamata Glera per far posto al comune chiamato Prosecco che ha dato vita alla rinnovata Denominazione di Origine) contiene una buona quantità di zuccheri pentosi non fermentabili, nell’ordine di circa 15 o 20 grammi litro.

Conosciamo bene quanto sia elastica la differenza tecnica che esiste tra un Brut, che può avere fino a 15 grammi litro di zucchero residuo, e l’Extra Dry, che di zucchero può contenere tra i 12 e i 20 grammi. Vi è, quindi, un’area tra 12 e 15 grammi ove è possibile utilizzare indifferentemente l’una o l’altra categoria di gusto. Questo per dirvi quanto sia sottile e sinuosa la differenza tra le due categorie. Poi da una parte dobbiamo metterci che il gusto del consumatore moderno si va sempre più spostando verso gusti secchi, ritenuti più muscolosi/mascolini, a discapito dei gusti dolci o morbidi, ritenuti troppo delicati/femminili; dall’altra ci troviamo una ricerca biologica sempre più a caccia di lieviti aggressivi ed esuberanti, capaci di scalfire l’integrità degli zuccheri pentosi: basta che siano in grado di bruciare due o tre grammi di zucchero in più e si passa da una categoria all’altra.

Le aziende moderne hanno, quindi, il loro bel daffare a trovare le procedure enologiche ottimali per poter avere a proprio piacimento vini etichettabili come Brut o Extra Dry, con pochissimi grammi di differenza tra l’uno e l’altro e, di conseguenza, con gusti molto simili. Ecco perché i nostri degustatori si sono trovati in difficoltà nel trovare, prima ancora che giudicare, i vini più secchi o più dolci. E se loro stessi che hanno una qualche esperienza erano in difficoltà, figuriamoci cosa può succedere ad un ignaro consumatore di fronte al dilemma, non sempre rilevato per la verità, tra Brut ed Extra Dry. Primo perché letteralmente i termini non hanno un significato preciso, tanto che extra dry dovrebbe significare molto secco, mentre invece indica un vino più dolce; poi per il fatto che la parola brut è spesso associata a vini spumanti di nobile lignaggio: capite, insomma, come la confusione possa diventare così alta da farsi sublime.

Ma allora che hanno detto i nostri bravi e indaffaratissimi degustatori? La prima linea del pareggio è data dal Valdobbiadene Prosecco Superiore Extra Dry Selezione Giustino B. di Ruggeri e dal Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Brut San Fermo di Bellenda, entrambi del 2011 (quindi pari e patta anche tra Valdobbiadene e Conegliano). La seconda linea, cioè quella che pensavamo potesse decretare un vantaggio per una delle due categorie, è stata invece del tutto speculare alla prima; anche qui un sostanziale pari e patta ottenuto, tra l’altro, dalla casa più storica, vale a dire la Carpenè Malvolti con il Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Extra Dry Cuvée Storica e il Conegliano Valdobbiadene Prosecco Superiore Brut Cuvée Storica.
I nostri complimenti a tutte le aziende e a tutti i loro vini, ma alla fine, stremato, dopo tanti pareggi mi sono ascoltato Il Rigoletto di Giuseppe Verdi fino a quando il Duca di Mantova intona  “Questa o quella per me pari sono”: ho capito che era ora di andare a dormire.

G.B.

 

 

PANORAMICA VALLE D’AOSTA
Le tradizioni viticole della Valle d’Aosta affondano radici profonde nella storia e datano con certezza di almeno duemila anni: alcuni scrittori latini (tra i quali Giulio Cesare – De Bello Gallico – e Plinio – Naturalis Historia) testimoniano l’esistenza di una florida attività viticola durante il dominio dei Romani nella Vallis Augustana.
Durante e dopo la caduta dell’Impero romano, la viticoltura locale cadde più volte in abbandono. Abbandonate a loro stesse, solo quelle viti adattatesi ai siti maggiormente vocati resistettero, a fianco di altre specie vegetali rampicanti, arbustive o arboree, parimenti competitive nei selettivi ambienti pedemontani della vallata centrale. Fu questo, quindi, il patrimonio ereditato dai contadini tornati alla coltura nelle epoche successive agli abbandoni.
Quei vignaioli medievali dovettero quindi svolgere un’operosa attività di recupero varietale, attuando in un primo tempo una semplice raccolta e propagazione delle piante sopravvissute nei differenti ambienti viticoli incolti e, in seguito, la propagazione delle viti dotate delle migliori attitudini colturali ed enologiche, evidentemente a scapito di altre di minor qualità.
Iniziò un attento e rigoroso intervento, perpetuato nei secoli, volto alla ricerca e all’utilizzo di uve produttrici di vini che appagassero le semplici richieste alimentari del contadino, ma anche e sempre più rispondessero ai raffinati gusti dei nobili dei Casati e delle Signorie che si andavano affermando.
Un’altra parte del patrimonio varietale valdostano potrebbe essere rappresentata da quelle piante nate spontaneamente, da semi qua e là prodotti dalle medesime varietà prima coltivate e poi abbandonate. Infine la parte più recente, quella dei cosiddetti vitigni tradizionali, è stata introdotta in Valle durante i Regni di Borgogna e dei Franchi (dal VI al X secolo d.C.) e poi, forse, sotto i Savoia (a partire dall’XI secolo). Questo materiale sarebbe quindi millenario (Pinot gris-Malvoisie, Moscato bianco-Muscat de Chambave, Freisa-Fresia, Nebbiolo-Picoutendro, Neretto-Neyret). Sul finire dell’800, in seguito alla comparsa dell’oidio, della peronospora e della fillossera (oidio 1848, peronospora 1886, fillossera 1896 e decenni seguenti) si fece consistente l’introduzione di vitigni piemontesi e francesi; dal Piemonte si importarono viti innestate di Barbera, Dolcetto, Grignolino e Bonarda; dalla Francia si introdussero, più che altro a titolo sperimentale, Pinot nero, Gamay, Syrah, Cabernets, Sauvignon, ecc.
Quest’invasione di varietà alloctone ebbe immediate ripercussioni sul millenario patrimonio viticolo valdostano, gran parte del quale, nell’arco di pochi decenni, venne abbandonato da masse di viticoltori. Nel XX secolo la superficie viticola della Valle d’Aosta ha subìto un forte regresso e attualmente raggiunge a stento i 500 ettari; mentre alcune testimonianze documentano che sul finire dell’800 tale superficie era almeno sei volte superiore (tra 3000 e 4000 ettari).
Il territorio valdostano coltivato a vite giace quasi interamente nella vallata centrale, percorsa dalla Dora Baltea, e si estende sulle pendici pedemontane che corrono da Pont-Saint-Martin a Morgex, interessando maggiormente le coste soleggiate della sinistra orografica.
Dopo l’attribuzione, negli anni 1971 e 1972, delle prime Denominazioni di Origine Controllata per i vini Donnas e Enfer, con DPR del 30 luglio 1985 viene riconosciuta la DOC Valle d’Aosta che comprende tutti i vini di qualità della Valle. Oggi la denominazione è rappresentata da 7 sottodenominazioni di zona e da 19 sottodenominazioni di vitigno oltre alle sottodenominazioni di colore (bianco, rosso, rosato) e alle tipologie di vinificazione (novello, passito, vendemmia tardiva e spumante).
La caratteristica più importante della viticoltura valdostana è proprio nei vini ottenuti da vitigni indigeni che sono talmente numerosi e unici nelle loro prerogative organolettiche da coprire un territorio che da Pont Saint-Martin – a un’altezza di 300 metri – sale fino a Morgex, a quota 1200 metri. Il territorio vitivinicolo della Valle d’Aosta può essere suddiviso in tre zone: l’Alta Valle, dove i vigneti raggiungono altitudini assai elevate; la Valle centrale, in cui vengono coltivati la maggior parte dei vitigni autoctoni; e la Bassa Valle, caratteristica per la coltivazione del Nebbiolo, denominato localmente “Picoutener”. Il panorama ampelografico dei vitigni coltivati in Valle d’Aosta è straordinariamente vasto e variegato per essere una regione con una viticoltura di montagna.
Tra i vitigni a bacca rossa troviamo: Picoutener (Nebbiolo), Petit Rouge, Neyret, Vien de Nus, Fumin, Mayolet, Prié Rouge. Tra quelli a bacca bianca: Muscat de Chambave, Pinot Grigio, Blanc de Morgex, Prié Blanc. Ci sono anche vitigni di recente introduzione: a bacca rossa Pinot Nero, Gamay, Dolcetto, Syraz; a bacca bianca Pinot Bianco, Muller Thurgau, Chardonnay, Petit Arvine; senza dimenticare antichi vitigni ripresi e selezionati: Cornalin, Premetta, Muscat Rouge, Gros Vien.

Una straordinaria antologia. Il risultato della degustazione

Una piccola regione, con solo 500 ettari vitati complessivi, ma uno scrigno ricco di tradizioni e peculiarità. È questa la Valle d’Aosta andata in scena ieri sera al Seminario Veronelli, protagonista di una degustazione che ha voluto mettere in luce la straordinaria ricchezza viticola ed enologica di una terra che, come spesso accade ai territori di frontiera, ha saputo mantenersi fedele alla propria distintiva identità. Quella valdostana è una viticoltura antica, con ogni probabilità risalente al periodo pre-romano (la vite pare essere stata introdotta dai Salassi, popolazione di origine celtica), anche se furono indubbiamente i Romani a razionalizzare impianti e produzione.

Da una così lunga storia è, quindi, scaturita una ricca collezione di vitigni autoctoni, selezionati nei secoli attraverso incroci di varietà locali o in seguito all’adattamento di uve provenienti dalle aree limitrofe. Ecco, così, che oggi, accanto ai vitigni di più recente introduzione (pinot nero, bianco e grigio, syrah, chardonnay, ecc.), troviamo ben radicata e valorizzata una teoria di uve dai nomi curiosi quali fumin, cornalin, gamay, mayolet, malvoisie (un pinot grigio ben adattatosi alle caratteristiche della Valle), petit rouge, petite arvine, premetta, prié blanc, vien de Nus, vuillermin. Un patrimonio notevole esaltato dalle condizioni climatiche e ambientali della Valle d’Aosta, che sembrano riuscire a rivelare con schiettezza e precisione le più pure caratteristiche varietali di ciascun vitigno, attraverso una pulizia ed un nitore espressivi che finiscono per rendere unici, peculiari ed autenticamente valdostani anche i vitigni di gusto teoricamente “internazionale”.

Il nostro pubblico è rimasto sorpreso e colpito di fronte ai 16 campioni proposti, rappresentativi di tutte le tipologie prodotte in Valle (spumanti, bianchi fermi, rossi e passiti) e delle tre distinte aree di produzione nelle quali è possibile suddividere il territorio: dagli irti vigneti dell’alta Valle, posti nella zona di Morgex ben oltre i 1000 metri s.l.m. e culla del prié blanc (vitigno ancora a piede franco), alle magnifiche vigne terrazzate che accompagnano con splendide esposizioni la Dora Baltea da Arvier a Saint-Vincent, nel tratto in cui la Valle si distende da ovest verso est, fino ad arrivare ai vigneti più bassi, le pergole spesso sorrette da colonne e capitelli di pietra tra Montjovet e Pont-Saint-Martin, laddove la viticoltura comincia a sentire l’influenza del vicino Piemonte. Tra tutti, i due vitigni che più hanno colpito sono stati sicuramente il bianco petite arvine ed il rosso fumin che, accanto alla freschezza, fragranza, mineralità e sapidità espresse da ogni vino degustato (caratteri organolettici davvero tipici di questa regione), hanno dimostrato una personalità unica e marcata, originale ed esclusiva, sempre ben riconoscibile nonostante la diversa mano dei produttori o l’influsso delle differenti annate. In definitiva si è trattato di un’occasione per felici incontri, scoperte ed epifanie grazie a vini dal delicato, elegante e raffinato fascino, che purtroppo sono spesso ancora difficili da reperire al di fuori della regione d’origine.

Per questo straordinario appuntamento ci siamo avvalsi della fattiva collaborazione di alcune delle migliori aziende della Valle: Cave du Vin Blanc de Morgex et de La Salle, Frères Grosjean – Maison Vigneronne, Institut Agricole Regional, Società Cooperativa La Crotta di Vegneron, La Source, Azienda Agricola Les Crêtes, Azienda Vitivinicola Pavese Ermes.

A tutti il nostro sentito applauso.

(M.M.)

 

SYRAH DI TOSCANA

Syrah

Il termine Syrah con il quale attualmente si designa il vitigno, è relativamente recente essendo stato adottato ufficialmente solo nella prima metà dell’Ottocento, con la creazione in Francia delle prime collezioni ampelografiche, rese necessarie dal grave problema delle false sinonimie ed omonimie alle soglie dell’arrivo in Europa della fillossera. Prima di allora il vitigno era chiamato Serine/Serene ed era spesso confuso con laMondeuse, chiamata fino alla fine del ‘700, Grosse Syrah o Proto Syrah.

Attorno a questo vitigno, alla sua origine, sono nate molte leggende che solo recentemente, anche se non in modo esaustivo, hanno trovato nella biologia molecolare risposte scientifiche convincenti. Vale però la pena ugualmente ripercorrere il cammino storico che ha accompagnato questo vitigno dal luogo delle sue origini a quello che è considerata la sua seconda culla, il medio tratto del Rodano.

Le fonti affermano che nel 1224 il nobile Gaspard de Steinberg al ritorno dalle crociate porta a Tain, località del Rodano, da Cipro, la Syrah. La cosa è verosimile se si pensa che anche la Mondeuse, chiamata anche Persan, e l’Altesse, vitigno bianco molto simile al Furmint, giunto in Ungheria con i Templari da Cipro, erano stati portati dai Savoia nel XIII secolo, ai piedi delle Alpi Occidentali. Meno documentata è invece l’ipotesi che la Syrah sia la vite allobrogica, lodata da molti georgici per la produzione di un vino famoso nella Roma imperiale, chiamato picato, per il gusto di pece, di catrame, il goudron di molti vini invecchiati, quali appunto i vini del Rodano ma anche il Barolo. Molto affascinante e promettente per il suo contributo alla conoscenza dell’origine del vitigno, è il contributo della linguistica, connesso con i riscontri dell’ampelografia storica comparata. La radice indoeuropea –ser infatti indica il carattere tardivo della maturazione (dal latino serus, appunto tardivo) evidenziato anche da Marziale nel II secolo d.C., ma anche la designazione del luogo di coltivazione interpretabile come “una pianura ai piedi delle montagne”. Questa attribuzione identifica la Syrah con il vitigno Shesh, non solo per la sua collocazione in Albania, a Durazzo, in un paesaggio viticolo simile a quello del Midi della Francia, a cui si riferisce il prefisso –ser, ma anche per una ragione semantica comune e perché in Albania un gruppo numeroso di vitigni che presenta notevoli vicinanze genetiche con lo Syrah, si chiama appunto Serine.

Analogamente a molti altri vitigni, anche per lo Syrah, l’analisi del DNA ne ha accertato i genitori, la Dureza e la Mondeuse b., ma soprattutto una interessante parentela, ancora tutta da chiarire con il Teroldego ed il Lagrein, attraverso il Pinot nero.

 

Le prime testimonianze del Syrah in Italia risalgono al 1828 e si riferiscono alla sua presenza nella collezione

dell’ampelografo mantovano Acerbi sotto il nome di Grosse Serine o Hermitage. Circa cinquant’anni più tardi, il Conte di Rovasenda e il Marchese Incisa della Rocchetta in Piemonte descrivono il vitigno come Serine-Syrah e Syrah dell’Ermitage. In Sicilia il Barone Mendola nel 1868 nel catalogo della sua collezione indica il vitigno solo con il termine Syrah. La presenza della Syrah in Italia è però precedente all’arrivo della fillossera, solo che era noto, in Piemonte, il luogo della prima coltivazione con i nomi errati di Bragiola e Neretta di Saluzzo. Le prime indicazioni sul comportamento agronomico e sulle attitudini qualitative del vitigno vengono fornite dal Mondini nel 1903, dalle quali si evidenzia una certa tolleranza alla peronospora (caratteristica molto importante in quegli anni), il germoglia mento tardivo, la sensibilità alla clorosi ferrica ed alla siccità. Elevate erano le esigenze in temperatura e in luce e la produzione di uva era spesso insoddisfacente per l’elevata incidenza delle virosi. Non veniva mai coltivata in purezza ma assieme alle vecchie varietà locali alle quali apportava colore, morbidezza ed aroma. Alla fine dell’800 era presente in quasi tutte le regioni italiane anche se la sua maggiore diffusione era in Toscana dove era soprattutto usato per migliorare il Chianti. I F.lli Visocchi nel 1868 lo coltivano nel frusinate assieme al Cesanese ed in Irpinia la Scuola Enologica di Avellino lo diffonde per l’elevato grado di adattamento alle condizioni climatiche e per la tolleranza alla peronospora. Negli anni Trenta la sua presenza si estende e, curiosamente, una delle poche regioni dove non se ne trova traccia è la Sicilia. Attualmente, invece, la Sicilia è la regione con la maggiore presenza, seguita dalla Toscana, nella quale gran parte della superficie a Syrah è presente nel territorio di Cortona che si è rivelato in questi anni un ambiente particolarmente favorevole per la qualità del vino di questo vitigno (La produzione di Syrah in Italia si estende su 7.138 ettari, cioè pari all’1.1% della produzione italiana e rappresenta il 7.6% della produzione in Europa. È al 18° posto della classifica dei vitigni prodotti in Italia. Ndr).

Pur essendo considerato un vitigno internazionale per la sua diffusa presenza nelle viticolture del Nuovo Mondo, la sua coltivazione appare più problematica di quella di altri vitigni francesi, quali ad esempio il Cabernet Sauvignon per la sua sensibilità allo stress idrico, per la facilità con la quale va in sovra maturazione, per il peggioramento della qualità del vino indotta da eccessive produzioni/ceppo e per una ancora ignota alterazione fisiologica per la quale improvvisamente in un vigneto muoiono nel corso dell’estate alcune piante.

Alcune precauzioni di tecnica colturale e soprattutto la disponibilità di cloni di alta qualità riescono comunque a ridurre questi aspetti negativi. È un vitigno che più di altri riesce a mantenere meglio le caratteristiche aromatiche del vino in ambienti caldi.

Origina vini che sono un po’ duri e “verdi” da giovani, specialmente con macerazioni post-fermentative prolungate. Ha la tendenza a produrre nel vino composti di riduzione che conferiscono un tipico gusto metallico e per questo motivo viene spesso tagliato con Grenache e Mourvedre con i quali presenta una buona complementarietà aromatica e cromatica.

In ambienti adatti e con un controllo severo della produzione per ceppo dà origine a vini adatti all’invecchiamento anche in barrique, alcolici, dal colore intenso e stabile di buona struttura tannica con un aroma che ricorda i chiodi di garofano ed il lampone da giovani e che evolve con l’invecchiamento verso descrittori più complessi di animale, sangue e muschio bagnato. Lo sviluppo della Syrah in Sicilia e nelle  regioni calde dell’Europa in genere è il risultato del grande successo che questo vitigno sta avendo in Australia, a tal punto che si parla già di uno stile di vino di Syrah australiano da affiancare a quello del Rodano. Naturalmente questa distinzione che si origina dal profilo sensoriale dei vini è riscontrabile anche negli Syrah italiani: quelli provenienti da Cortona ed in genere dalla Toscana hanno caratteristiche più vicine a quelli del Rodano o comunque a vini continentali, con descrittori soprattutto di frutti rossi ed un po’ minerali, mentre quelli siciliani sono più simili a quelli australiani, fenolici, speziati con sentori di cioccolato e caffè, certamente molto vicini a vini di ambienti mediterranei. Per la verità gli Syrah della Hunter Valley e quelli di Coonawarra, prodotti in regioni calde ma non torride, presentano note aromatiche più eleganti e speziate di quelli della Barossa Valley e del Nuovo Galles del Sud, dal clima più caldo che sono spesso ossidati, poveri di aroma con tannini duri che vengono quasi sempre tagliati con Cabernet Sauvignon e con Grenache, per attenuarne i difetti.

Lo Syrah è attualmente il vitigno a bacca rossa più di moda nel mondo, come testimoniano i trend esponenziali di impianto ed il suo successo commerciale, soprattutto sui mercati degli Stati Uniti e dell’Inghilterra. Purtroppo, come è già avvenuto per altre varietà, ciò determina la creazione di due mercati di tale vino: uno legato alle denominazioni di origine famose, quali quelle del Rodano, destinato ad un consumatore esperto che sceglie in base ai diversi livelli di qualità dei vini; ed un altro dove è il nome del vitigno ad indirizzare la scelta, in base alla moda del momento, ed è il prezzo, non la qualità, a privilegiare la provenienza del vino.

Attilio Scienza

Il Risultato della Degustazione

Si è iniziato a parlare del Syrah e abbiamo dovuto premettere che in questi ultimi anni si sta ridisegnando la mappa dell’ampelografia mondiale; i più moderni sistemi di ricerca molecolare ci stanno aprendo scenari impensabili solo pochi anni orsono. E la ricerca incalza i ricercatori stessi, che qualche volta si lasciano prendere dall’entusiasmo e si sbilanciano in ipotesi poi spesso contraddette dal loro stesso ricercare. Soltanto un paio d’anni fa il Syrah sembrava essere al centro di una complicata rete di relazioni parentelari con la maggior parte dei vitigni europei e con buona parte di quelli che ancora popolano i vigneti del Medio Oriente, ma con il passare del tempo le ricerche si sono fatte sempre più strette ed hanno sconvolto il quadro generale che si era generato. Si è così giunti a dimostrare che il Syrah è, in realtà, figlio del Dureza, un vitigno rosso dell’Ardèche, e del Mondeuse Blanche dell’Alta Savoia, ma rimane ancora indefinita la sua presunta parentela con il Teroldego e con il Lagrein, argomento che tanto ci infervorò quando, a suo tempo, si paventò questa suggestiva prospettiva.
Ancora una volta il matrimonio tra un’uva rossa ed una bianca si è rivelato propizio alla nascita di vitigni di eccezionale valore enologico: basti ricordare che lo stesso Cabernet Sauvignon, vitigno principe della viticoltura di tutto il mondo, è figlio di Cabernet Franc e di Sauvignon Blanc.
Il Syrah in Toscana ci è arrivato dalla valle del Rodano già nel 1800 e veniva utilizzato, udite udite, per migliorare il Chianti; è poi documentato come lo si coltivasse nel Frusinate insieme al Cesanese e come la Scuola Enologica di Avellino ne incoraggiasse la diffusione per la sua tolleranza alla peronospora.
Ancora una volta dobbiamo constatare che la storia non riesce ad insegnarci nulla: corti di memoria o abili impostori?
Sta di fatto che del Syrah si ricomincia ad occuparsi seriamente solo negli anni ’80, in seguito al nascente successo dei Siraz australiani e del rinato vigore della viticoltura della Côtes du Rhône, in primis della Côte Rôtie. La Toscana si scopre sempre più adatta a coltivare questo vitigno per via del suo clima piuttosto caldo, al di fuori delle aree centrali più elevate, e in tutto simile a quello della valle del Rodano. Si affermano sempre più vocate al Syrah le campagne di Cortona, alcune aree chiantigiane di ridotta altitudine, e si diffonde sempre più su tutto il litorale tirrenico, dalla provincia di Pisa alla provincia di Livorno e giù fino al Grossetano. I risultati enologici sono stati subito molto lusinghieri ed il pubblico dei consumatori, dopo qualche iniziale diffidenza e qualche difficoltà a reggere impatti gustativi così perentori ed energici, ha mostrato di apprezzare questi vini insoliti e curiosi per il nostro gusto. Di certo, se gli aspetti aromatici dei Syrah sembrano a volte persino aggressivi e rustici, la dolcezza e la morbidezza dei tannini riporta il gusto a sensazioni energiche ma confortevoli ed eleganti.
Nella degustazione che è seguita il pubblico, attentissimo e pronto a cogliere le diverse sfumature dei calici, ha mostrato di capire immediatamente che la partita si stava giocando sostanzialmente tra due vini: il Suisassi Toscana Rosso 2009 di Duemani, l’azienda di Riparbella di quel portento di enologo che è Luca d’Attoma con la sua compagna Elena Celli, e il Hide Toscana Rosso 2009 di Bulichella, l’azienda di Suvereto di Hideyuki Hiyakawa e di sua moglie Maria Luisa Bassano. Tutti gli altri vini della serata, buonissimi, non hanno potuto fare altro che assistere al colpo di reni finale dei pisani sui livornesi.
Non vorremmo ridestare antiche e incandescenti contrapposizioni campanilistiche, ma se dallo scontro dovessero nascere delle sagaci battute o delle irrispettose vignette non potremmo che riderne, sempre in compagnia di un buon Syrah.

G.B.

 

I nostri Soci presenti hanno così votato:

Bita Asori: Hide Toscana Rosso 2009 di Bulichella, Cortona Syrah Cuculaia di Dionisio Fabrizio, Syrah Toscana del Castello di Farnetella;

Viola Gallabresi: Hide Toscana Rosso 2009 di Bulichella, Marchesale Syrah Toscana della Fattoria Terre del Marchesato, Suisassi Toscana Rosso 2009 di Duemani e Syrah Toscana del Castello di Farnetella a pari merito;

Maurizio Andreini: Hide Toscana Rosso 2009 di Bulichella, Suisassi Toscana Rosso 2009 di Duemani, Cortona Syrah Cuculaia di Dionisio Fabrizio;

Silvio Magni: Hide Toscana Rosso 2009 di Bulichella, Marchesale Syrah Toscana della Fattoria Terre del Marchesato, Suisassi Toscana Rosso 2009 di Duemani e Syrah Toscana del Castello di Farnetella a pari merito;

 

 

ES – TUTTO QUELLO CHE AVRESTE VOLUTO SAPERE SUL PRIMITIVO (MA NON AVETE MAI OSATO CHIEDERE)

Il ricordo è ancora vivissimo e d’altra parte sono passati solo otto anni; otto anni sono un nulla, passano così rapidamente da lasciarti senza fiato. Era un sabato pomeriggio e al Leoncavallo di Milano, in occasione del Critical Wine 2005, un centinaio di vignaioli si presentava ad un pubblico giovane, allegro, pittoresco, inusuale nel mondo del vino. Giravo tra gli stand per salutare gli amici e in cerca di novità; mi colpì un giovanotto, solo, con un’unica bottiglia sul tavolo, etichetta nera con una tormentata linea rossa che inscriveva il monosillabo Es. Quando ebbi un dito di quel vino nel bicchiere e, ostentando un poco di indifferenza, lo annusai, sentii una botta in testa, una lieve vertigine; una sirena mi fischiò nelle orecchie e, non appena lo assaggiai, gli zigomi e le orecchie si accesero. Sbalordito non riuscivo ad articolare un commento sensato.

Ma chi diavolo è questo dandy con maglioncino bianco che mi fa assaggiare questo vino? Da dove sbuca questo Faust pugliese che osa stupirmi senza preavviso? Poi il suo breve racconto di un ettaro e poco più di vigna vicino a Manduria, di viti vecchie di cinquant’anni ad alberello, dell’ansiosa attesa di una maturità completa, di una resa ridottissima, di una vinificazione senza fretta, di quasi un anno di barriques francesi e della speranza di un anno di bottiglia. Es Primitivo di Manduria 2004 di Gianfranco Fino ebbe un esordio scintillante: il giorno stesso lo presentai in una degustazione di vini d’Autore e l’anno successivo sulla Guida Oro I Vini di Veronelli conquistò il radioso SOLE.

Ieri sera Gianfranco Fino era con noi in compagnia di Simona, moglie e impareggiabile compagna d’avventura, a presentare la completa verticale di Es, dall’esordiente 2004 fino all’ultimo 2010. Sette annate che raccontano le successioni climatiche, l’ampliamento dei vigneti, la precisione della conduzione delle piante, le rigorose tappe tecnologiche, il coraggio di osare, la volontà di eccellere in tutto. In Es, che per Freud è la spinta per la soddisfazione delle pulsioni inconsce dell’individuo, si percepiscono tutti quei caratteri maturi, morbidi, avvolgenti e sensuali dei grandi vini mediterranei. Frutti dolci e polposi, note speziate piccanti e pepate, un tocco balsamico di origine vegetale che si fonde con un ricordo orientale di incenso e resina, a volte impreziosito da afflati floreali; una dolcezza fruttata densa e fragrante insieme, un caldo abbraccio alcolico ed un delicato piglio tannico, una fresca e succosa acidità avvolta in pacata densità estrattiva.

Uno dei vini più seducenti che si siano prodotti in questi ultimi anni in Puglia con un vitigno sottovalutato e spesso trascurato; uno dei vignaioli di maggior capacità tecnica e di maggior successo commerciale; una carriera fulminante che in meno di otto anni lo ha portato al vertice assoluto della produzione nazionale. Ma se qualcheduno nutrisse ancora qualche dubbio sulla Puglia, sul Primitivo, su Gianfranco Fino ed il suo Es, allontani i pregiudizi e serenamente provi il 2010, perché questo è un vino SPETTACOLARE.

G.B.

 

I VINI ROSSI DELL’ETNA

La storia del vino sull’Etna inizia con una lunga e suggestiva vicenda geologica, durata, forse, più di 500 mila anni, che ha dato origine alla regione etnea ed al vulcano più alto d’Europa. Un’area interamente costruita dal vulcano che nei secoli ha eruttato quantità enormi di lava. Sempre nei secoli, con l’aiuto del tempo, “l’azione dell’uomo ha tenacemente sovrapposto al paesaggio lavico, un paesaggio agrario tra i più ricchi dell’isola”, fatto non solo di ridenti vigneti, pereti, agrumeti, campi coltivati e numerosi insediamenti urbani sparsi tra valli e colline, ma anche di genuine tradizioni, miti e simboli secolari. La natura di un territorio unico di natura dichiaratamente vulcanica gioca un ruolo determinante sul profilo organolettico dei vini. Siamo di fronte a vitigni esclusivamente autoctoni: nerello mascalese, nerello cappuccio, minnella, carricante e catarratto oltre alla vesparola, varietà precoce a bacca bianca meno conosciuta.

La zona etnea rappresenta un microclima particolarissimo ed unico in tutta l’isola (è l’isola nell’isola) e forse nel mondo, dove la vite da sempre è stata coltivata ed il vino prodotto conosciuto ed apprezzato sin dall’antichità.

La mitologia, la letteratura, le arti figurative, le leggende, le tradizioni popolari, hanno dato vita, sin da tempi remotissimi, a quella che è la “cultura del vino” in queste località.

Tra i tanti scritti sull’Etna e i suoi vini, quelli dello studioso Domenico Sestini, datati 1774, sono certamente tra i più interessanti, non solo sotto il profilo storico, ma soprattutto tecnico, in quanto per certi versi si possono considerare un mini trattato sulla vitivinicoltura etnea dell’epoca. Tantissimi altri storici, scrittori, antichi e contemporanei, si sono interessati dell’agricoltura etnea, e quindi della vitivinicoltura e di tutti gli altri aspetti ad essa legati, certamente affascinati dal vulcano, da sempre attivo, che alimenta con la sua lava le terre intorno ad esso, la quale raffreddandosi e sgretolandosi, nei secoli, da origine ai fertili terreni delle falde dell’Etna. Il Bacci nella sua opera “De Naturali Vinorum Historia”, datata 1569, fa ampie citazioni sui vini rossi dell’Etna, le cui virtù vengono attribuite alla matrice della terra vulcanica. Anche Teocrito cita la viticoltura praticata alle falde dell’Etna. Sicuramente i vini dell’Etna erano già conosciuti nel V-III sec. a.C.

Sull’Etna, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, la viticoltura e l’enologia assunsero importanza

economica e sociale considerevole. Le aziende vitivinicole, pur a carattere padronale, si estesero talmente da far raggiungere alla provincia di Catania, intorno all’anno 1880, il primato tra quelle siciliane, per superficie vitata e per produzione di vino (circa un milione di ettolitri). Notevoli quantità dei vini prodotti nel massiccio etneo, allo stato sfuso, prendevano la via del mare dall’antico porto di Riposto, costruito proprio per la loro commercializzazione. In esso affluivano grosse partite di vino che, via mare venivano esportati in Francia, in Nord Italia e nelle Americhe. Per facilitare il trasporto del vino dalle più alte contrade di produzione al porto di Riposto, si costruì la linea ferrata della Circumetnea. A Riposto, a sostegno amministrativo, di tutela e di controllo dei vini dell’Etna, si istituì, nel 1886 l’Ufficio Enologico ed a Catania su Regio Decreto fu fondata nel 1881, tra le prime in Italia, la Scuola Enologica (oggi Istituto Tecnico Agrario specializzato per la viticoltura e l’enologia).

La particolarità più importante della produzione dei vini dell’Etna, oltre alla benefica influenza della vicinanza del mare e del particolare tipo di terreno vulcanico, è che la zona interessata alla viticoltura si sviluppa su una superficie troncoconica. Questa particolare giacitura influenza profondamente il clima della zona mediante due fattori che hanno azione preponderante: l’altitudine e l’esposizione. L’altitudine agisce soprattutto nei riguardi delle escursioni termiche annue, mensili e giornaliere (anche di 30°C) sul microclima, influenzando i processi di fioritura, invaiatura e maturazione dell’uva.

L’esposizione agisce sulla luminosità influenzando soprattutto i fenomeni enzimatici preposti al metabolismo degli acidi e degli zuccheri e di conseguenza sulla qualità dell’uva. Questi due fattori, altitudine ed esposizione, collegati tra loro da diverse correlazioni, determinano differenti microclimi. L’ esposizione a nord e nord-est, esalta gli effetti delle elevate altitudini e mitiga quelle delle basse altitudini. L’esposizione a est e sud-est, consente di allevare la vite con ottimi risultati qualitativi anche ad altitudini elevate. Nel massiccio etneo si possono considerare tre fasce elettive per la coltivazione della vite.

ZONA EST: compresa tra i 400 e i 900 metri sul livello del mare, ospita il “Bosco Etneo”, il nucleo più prestigioso per la produzione dei vini etnei

ZONA SUD: la viticoltura si estende su terreni tra i 600 e i 1000 metri sul livello del mare ma la produzione di vino è, in questa zona, per lo più ad uso familiare

ZONA NORD: su questo versante si concentra il 45% della produzione enologica dell’Etna, in particolare nei territori dei comuni di Castiglione di Sicilia e Randazzo.

I PRINCIPALI VITIGNI A BACCA ROSSA

Il Nerello mascalese

Il luogo d’origine di questa cultivar a bacca nera, da sempre la più diffusa nella zona etnea, è presumibilmente la piana di Mascali, alle falde dell’Etna, dove questo vitigno si coltiva da almeno quattro secoli. Dalla metà del XIX secolo è il vitigno più diffuso della zona nord orientale della Sicilia ed è considerato il vitigno caratterizzante la viticoltura dell’Etna dove è presente fino ad oltre 1000 metri di altezza.

Il grappolo è grande, conico o piramidale, allungato, provvisto di una o più ali più o meno sviluppate,

mediamente compatto. Ha acino medio, sub ellittico, con buccia molto pruinosa, spessa e consistente, di colore blu chiaro.

Ha produzione abbondante ma non sempre costante, predilige sistemi di allevamento di piccola espansione con potatura corta. Sensibile all’oidio, in generale tollera bene le principali malattie crittogamiche ed ha media

resistenza alle avversità climatiche.

Il Nerello cappuccio

Non si conosce nulla sull’origine di questo vitigno e abbastanza poco sulla sua diffusione in Sicilia; le prime

informazioni ci pervengono da Geremia (1839) relativamente alle zone di Trecastagni e Viagrande (CT). Dai

Bollettini Ampelografici abbiamo notizie della coltivazione di un ‘Nerello ammantellato’ nella provincia di Catania (1878) e di un ‘ Niureddu ammantiddatu’ in quella di Palermo. Il nome deriva dallo sviluppo del fogliame che, come un mantello, sottrae i grappoli alla vista.

Il grappolo va da medio a grosso, mediamente lungo, di forma cilindrica o cilindro-conica, alato, da mediamente compatto a compatto; l’acino è di media grandezza, rotondo con buccia spessa, mediamente pruinosa, di colore blu-nero.

Di buona vigoria, predilige forme a media espansione con potatura corta o mista. Buona resistenza alle malattie crittogamiche.

 

Il risultato della degustazione – Vigne antiche per vini di oggi

Lo ricordo ancora nettamente l’Etna –  la Montagna, come lo chiamano i siciliani – dal viaggio compiuto la scorsa primavera, con la sua cima imbiancata, la lunga scia di fumo tesa verso sud. E ricordo molto bene il colore della sua terra che, staccandosi dalla piana di Mascali (con l’accento tonico sulla prima a, come mi ha fatto osservare un siciliano), parte molto chiaro come la cenere, ma salendo sulla via per Castiglione di Sicilia, curva dopo curva, tornante dopo tornante, si fa sempre più scuro fino a diventare nero come il carbone.

Su queste terre a quote prossime agli 800 metri di altitudine troviamo terrazzamenti e balze con muri a secco, aspri e spigolosi, sui quali poggiano vecchi vigneti ad alberello di Nerello Mascalese (da Mascali) e anche qualche ceppo di Nerello Cappuccio, così chiamato per quell’affastellamento di tralci che ricopre la cima. L’aria è sempre tesa, nitida, e il calore, anche quello estivo, è sempre striato da brezze che portano frescura verso sera e soprattutto la notte. Così l’uva matura bene e conserva tutta la sua preziosa carica aromatica.

Una viticoltura arcaica ora riscoperta e portata alla ribalta da impostazioni agronomiche esigenti e rigorose, da scelte enologiche semplici che mettono in risalto la fragranza, la leggerezza, la nitidezza dei profumi e dei sapori delle uve. Una viticoltura controcorrente che non mette al centro dell’attenzione il vitigno, ma la specificità dei luoghi. Sembra di essere nelle Langhe, dove ogni collina, ogni versante, ogni vigneto ha un suo specifico nome; oppure in Borgogna, dove le pratiche enologiche sono così comuni da non diventare argomenti di discussione, lasciando ai diversi cru il compito di esprimere carattere e personalità singolari.

Ieri sera al Seminario Veronelli sono bastati otto vini per saturare l’aria della nostra sala da degustazione di aromi di fiori dolci e soavi, glicine e lillà, di frutti fragranti, fragola e lampone, di note fresche di menta e piccanti di pepe. Son bastati i primi sguardi per notare il colore rubino chiaro e lucente; sono bastati i primi assaggi per cogliere la succosità del frutto appena colto spinto da una schietta acidità e da una tannicità di finissimo spessore e fittissima trama, carezzevole e dinamica. Sorprendente la bevibilità che invoglia ed incita al riassaggio.

Tra gli otto vini in degustazione si è subito capito che due campioni stavano rapidamente catturando l’attenzione del nostro fidato pubblico: l’Etna Rosso Caldera Sottana 2010 di Tenuta delle Terre Nere (Randazzo) ed il Contrada P (Porcaria) Sicilia Rosso 2010 di Passopisciaro (Castiglione di Sicilia) hanno, infatti, monopolizzato i commenti finali, stagliandosi al di sopra di tutti gli altri squisiti vini.

G.B.

  

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