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Dic 03 2012

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L’AZIONE DI SCALDARE IL LATTE HA 8.000 ANNI: RISALE AL 5.200 A.C. LA PIÙ ANTICA TRASFORMAZIONE DEL LATTE NEL SAHARA.

LO DICONO LE UNIVERSITÀ DI ROMA LA SAPIENZA E BRISTOL CHE SVELANO L’ORIGINE DI UN GESTO QUOTIDIANO CHE HA UNITO I POPOLI NEL TEMPO

Può un semplice gesto quotidiano unire i popoli nel tempo? Quanti anni potrebbe avere per esempio l’azione di scaldare il latte o fare il formaggio? Almeno 8.000 anni, perché la più antica lavorazione del latte risale al VI millennio a. C. e la sua nascita avvenne nel Sahara.

Nella regione del Tadrart Acacus, nella Libia sud-occidentale, lo scavo di un riparo sotto roccia ha portato nfatti alla sensazionale scoperta della prima testimonianza africana della lavorazione del latte e ad una serie importante di dati sulla vita dei popoli che abitarono l’area prima del deserto, come il fatto che rivestiva un ruolo fondamentale per le strategie alimentari. Il latte trasformato in formaggio, infatti, si conserva a lungo e, soprattutto, risulta digeribile anche a chi non ha sviluppato la tolleranza al lattosio. Ecco i risultati, pubblicati sulla rivista “Archeologia Viva”, del progetto guidato dall’archeologo Savino di Lernia dell’Università di Roma “La Sapienza” e Richard Evershed dell’Università di Bristol che svelano un aspetto chiave, legato alla food security, delle comunità pastorali preistoriche.

Si tratta della più antica evidenza diretta dell’uso dei prodotti secondari dell’allevamento in tutto il continente e apre nuovi orizzonti sulla comprensione della storia delle popolazioni pastorali africane. Lo studio ha preso in considerazione una selezione di frammenti ceramici rinvenuti nel corso di quattro campagne di scavo condotte dalla missione archeologica de La Sapienza nel Sahara presso il riparo sotto roccia di Takarkori. In questo sito, di Lernia e Stefano Biagetti con l’aiuto di numerosi collaboratori hanno messo in luce una lunga sequenza archeologica, che include livelli riferibili all’orizzonte di cacciatori-raccoglitori mesolitici (8300-6100 a. C.) e di pastori neolitici (6400-2630 a. C.). Alcuni frammenti ceramici del Neolitico Pastorale Medio (5200-3750 a. C.), rivelatisi ricchi di micro residui di natura organica, sono stati sottoposti ad analisi chimiche presso il laboratorio di Bristol. Qui i ricercatori hanno riscontrato un’abbondante presenza di acidi grassi, la cui origine animale è stata prontamente evidenziata.
Grazie allo studio di alcuni isotopi del carbonio, si è accertato che tali grassi sono il residuo di lavorazione (bollitura) del latte. Questa scoperta permette di stabilire con certezza che nel Pastorale Medio, almeno a partire dal 5.200 a. C., era diffusa una forma di allevamento molto avanzata, dove la lavorazione del latte rivestiva un ruolo fondamentale per le strategie alimentari. Il latte trasformato in formaggio, infatti, si conserva a lungo e, soprattutto, risulta digeribile anche a chi non ha sviluppato la tolleranza al lattosio. Dunque i risultati della ricerca anglo-italiana hanno svelato un aspetto chiave, legato alla food security, delle comunità pastorali preistoriche. Peraltro, la rilevanza della scoperta va oltre l’eccezionalità del singolo rinvenimento e aggiunge un dettaglio fondamentale per lo studio del pastoralismo sahariano e africano, proprio quando la situazione politica rende queste zone di fatto inaccessibili alla ricerca archeologica. Eppure questa vasta regione racchiude al suo interno testimonianze ancora poco studiate, suscettibili di cambiare profondamente la nostra visione del passato. Il progetto Takarkori, in questo senso, si configura come un caso ideale di studio. Lo scavo del riparo sottoroccia, infatti, è stato condotto in estensione, e ha interessato un’ampia superficie (circa 150 mq), decisamente maggiore rispetto alle indagini svolte negli ultimi quarant’anni nel Sahara centrale.

Grazie all’impiego di tecniche di topografia digitale e al largo uso di datazioni al C14, è stato possibile affrontare i sedimenti sabbiosi che caratterizzano le stratigrafie oloceniche sahariane (l’Olocene è l’era geologica più recente quella in cui ci troviamo oggi), arrivando a valutare la sorprendente variabilità di strati del riparo Takarkori, solo in apparenza simili. Livelli di stallatico, piani di calpestio, strati di paglia, ma anche sepolture umane, recinti in pietra, e focolari di vario tipo che raccontano l’occupazione pulsante dei cacciatori-raccoglitori e dei pastori preistorici, la loro vita e la loro morte. L’eccezionale repertorio di manufatti, anche su materiali deperibili come pelli e fibre vegetali, completa un quadro fuori dal comune. Infatti, il progetto Takarkori non si è limitato allo scavo di un singolo sito, ma si è articolato in diversi livelli d’indagine che abbracciano tutte le evidenze archeologiche (tumuli funerari di età pastorale, arte rupestre, siti all’aperto) e geologiche presenti nei dintorni del riparo. Infine, azioni di tutela del paesaggio storico-culturale, quali la musealizzazione del riparo e la ricostruzione dei tumuli funerari scavati, sono state parti integranti del progetto, realizzate con il coinvolgimento diretto della comunità locale. fonte: winwnews 

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