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Apr 16 2013

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LE DEGUSTAZIONI DI PRIMAVERA DEL SEMINARIO VERONELLI

 

 

I VINI ROSSI DI SARDEGNA, ROERO 2009, CABERNET FRANC, OLIO EXTRA VERGINE D’OLIVA 2012, PINOT NERO 2009, COLLIO BIANCO 2011

 VINI ROSSI DI SARDEGNA 

I reperti archeologici rinvenuti in alcuni siti suggeriscono la presenza di attività enologiche già in epoca nuragica. Altri studi definiscono l’importante ruolo svolto dalla Sardegna nella domesticazione della vite selvatica, a cui contribuirono i popoli che, giungendo nell’isola nel corso dei secoli, introdussero pratiche agronomiche fino ad allora sconosciute.

 La Sardegna ha visto il susseguirsi di numerose dominazioni: i fenici, grandi viticoltori, ma anche esperti navigatori, diffusero la coltura della vite proprio nelle aree attorno alle colonie; i punici che, trovando una viticoltura già impostata la fecero diventare la coltura dominante in diverse colonie tra cui Olbia.

Con l’estromissione dei punici da parte dei romani, inizia per la Sardegna un lungo periodo di dominazione, di cui sono rimaste numerose testimonianze archeologiche, relative alla vitivinicoltura praticata in quell’epoca. Di particolare evidenza i ritrovamenti nel complesso del nuraghe Arrubiu ad Orroli, in cui sono state rinvenute delle zone adibite a veri e propri laboratori enologici datati tra il II e IV sec d.C, provvisti di vasche per la pigiatura dell’uva, basi di torchi e contenitori vari. Ma la scoperta più sorprendente è forse quella dei numerosi vinaccioli, risalenti allo stesso periodo, ritrovati negli strati sottostanti dello stesso nuraghe e riconducibili a vitigni autoctoni ancora oggi largamente diffusi. Numerosi riferimenti all’epoca romana imperiale si riscontrano un pò ovunque: necropoli e tombe con decorazioni e suppellettili di evidente riferimento enologico, termini agronomici di origine latina e tecniche di allevamento delle vigne ancora oggi in uso.

L’epoca romana finì verso la metà del V secolo con le invasioni vandaliche; all’abbandono delle colture che accompagnò questo periodo seguì una successiva ripresa dell’intensa attività agraria ad opera dei bizantini, ai quali si deve, oltre alla normativa colturale piuttosto rigorosa e dettagliata, l’introduzione di nuovi vitigni. A seguito del declino dell’Impero bizantino nasceranno i quattro Giudicati di Cagliari, Arborea, Torres e Gallura. Durante il periodo Giudicale la Sardegna fu interessata a consolidare e incrementare le produzioni vitivinicole, proteggendo la coltura della vite e il commercio del vino attraverso una regolamentazione decisamente esemplare codificata nella “Carta De Logu” , promulgata da Eleonora di Arborea alla fine del 1300. Nel “Codice degli Statuti del Libero Comune di Sassari”, risalente alla fine del 1200, all’art. 128 si disciplina l’esubero della vite nel nord dell’isola, introducendo già in quell’epoca il moderno e attuale sistema di regolamentazione d’impianto dei nuovi vigneti.

Tra il XIII e XVIII secolo, con la dominazione aragonese e spagnola, vennero introdotte nell’isola nuove cultivars sia a bacca bianca che nera, ancora oggi largamente coltivate.

Alcuni storici attribuiscono a questo periodo anche l’introduzione di un nuovo sistema di allevamento della vite detto “alla catalana”, cioè senza sostegno, diverso dalla forma “alla sardisca”, in cui la pianta si appoggiava a sostegni morti. Altri storici sostengono però che questo sistema fosse già praticato in Sardegna in epoca romana da cui il termine “alberello latino” ancora oggi largamente utilizzato.

 Alla fine dell’Ottocento, cioè prima che la fillossera decimasse gli impianti viticoli, in Sardegna erano presenti circa 80 mila ettari di vigneto specializzato. Dopo la ricostruzione degli impianti, applicando l’innesto su “piede” americano, la viticoltura in Sardegna riprese via via ad espandersi fino ad investire una superficie di circa 75 mila ettari.

La vite non è il tipo di coltivazione più esteso in Sardegna e ha anzi subito un certo arretramento negli ultimi anni tanto da arrivare ad una superficie di nemmeno 20.000 ettari.

I vitigni più diffusi, tra i rossi, sono il Cannonau ed il Carignano ma buona diffusione hanno anche Bovale, Monica e Cagnulari.

CANNONAU: non si conoscono con certezza le sue origini tuttavia, recentissimi studi ancora in corso potrebbero far ipotizzare la presenza del cannonau in terra sarda già al momento della dominazione spagnola, periodo cui storicamente si fa risalire la sua introduzione. Il Cannonau occupa il trenta per cento della superficie vitata sarda, investendo una superficie complessiva di circa 7500 ettari, concentrati per oltre il 70% nella Provincia di Nuoro.

 

 

CARIGNANO: la produzione di questo caratteristico vino è quasi tutta concentrata nel Sulcis, regione compresa fra le ultime propaggini montane della Sardegna sud-occidentale e il mare. Probabilmente furono i Fenici, fondatori dell’antica Solci nell’isola di Sant’Antioco, ad introdurre questo vitigno in Sardegna. La superficie di coltivazione si estende su circa 1700 ettari ma, nonostante la limitata diffusione, il Carignano può ritenersi con certezza uno dei vini più importanti e prestigiosi dell’enologia sarda.

 

 

BOVALE: col termine “Bovale” si individuano due vitigni, il Bovale sardo e il Bovale di Spagna detto anche Bovale grande, quest’ultimo giunto in Sardegna dalla penisola iberica intorno al 1300. Recenti acquisizioni scientifiche supportate da analisi genetiche, confermano la sostanziale diversità varietale tra i due Bovali. Il Bovale sardo, più conosciuto localmente col sinonimo “Muristellu” la cui origine autoctona è quasi certa, è presente in diverse aree viticole della Sardegna ma trova la sua migliore espressione enologica nei terreni soleggiati e sciolti della zona del Mandrolisai nel nuorese, e della zona di Terralba nell’oristanese.

MONICA: il Monica, é uno dei vitigni sardi di più antica introduzione. È presente, anche se con percentuali diverse, in tutto il territorio isolano in cui risulta coltivato su una superficie complessiva di circa 3000 ettari. L’ ipotesi più accreditata sulle origini del vitigno è quella che attribuisce l’introduzione in Sardegna intorno all’XI secolo, ad opera dei monaci Camaldolesi, da cui deriverebbe il nome con cui è più diffusamente conosciuto. Un’altra teoria attribuisce la provenienza al periodo della dominazione spagnola, di fatto in alcune zone dell’isola il vitigno viene chiamato “Monica di Spagna” o “Uva Mora”.

CAGNULARI: questo antico vitigno trova il suo ambiente di elezione in una ristretta area localizzata a Nord-Ovest della provincia di Sassari. Presenta affinità con il Bovale sardo cui molti ricercatori lo assimilano.

 

 

 

 La Sardegna dei grandi vini: il risultato della degustazione

Se ne sta sempre un po’ da parte, come se non volesse disturbare; ha un carattere timido e riservato e non ama mettersi in mostra. Per due mesi all’anno è al centro dell’attenzione vacanziera e questo sembra che le basti. Ma non basta a noi, che sappiamo quali eccellenze possa vantare e ci dispiacciamo del fatto che in realtà ben pochi lo sappiano, pochi possano condividere i piaceri che i vini sardi sanno dare.

È una viticoltura arcaica che è sempre riuscita, seppure con qualche fatica, a mantenersi al passo con i tempi preservando un patrimonio colturale ed ampelografico straordinario. È anche vero che questa sua capacità di conservare le tracce del suo passato è molto legata al fatto di essere isola e, quindi, per definizione “isolata” dal resto del continente, il quale, invece, è stato attraversato costantemente da popoli, culture, mode e tendenze che qualche volta hanno cancellato ciò che doveva essere tutelato.

La Sardegna del vino (che è ben diversa dalla Sardegna delle coste e del mare) mantiene, dunque, un paesaggio naturale di grande bellezza ed integrità, sia per quanto riguarda ciò che abbiamo sotto i piedi, il suolo e la terra, sia a proposito di ciò che abbiamo sopra la testa, l’aria e la luce; mantiene una viticoltura antica che si è leggermente adeguata alle esigenze del lavoro moderno, introducendo la meccanizzazione ma lasciando quasi inalterate le forme di allevamento delle viti; ha mantenuto intatto un ricchissimo patrimonio ampelografico costituito da vecchie varietà, frutto del minuzioso lavoro di incrocio e selezione degli antichi viticoltori, ha accolto nuove buone varietà che venivano dalle culture dominanti nei secoli passati e non si è lasciata sedurre troppo dalle sirene dei vitigni internazionali; ha modernizzato e razionalizzato le procedure enologiche al solo fine di mantenere più evidenti e longevi i caratteri organolettici dei suoi vini.

Ma di questo straordinario patrimonio pochi se ne sono accorti e la viticoltura sarda negli ultimi cinquant’anni ha perso più della metà del suo potenziale produttivo; soltanto negli ultimi dieci anni la sua superficie vitata è scesa sotto i 30 mila ettari e la produzione vinicola è passata da 950 a 450 mila ettolitri. Eppure la qualità dei vini sardi è cresciuta enormemente e meriterebbe ben altra visibilità, tanto sui mercati del nostro Paese quanto su quelli internazionali.
Ieri sera abbiamo voluto illustrare una panoramica della produzione di vini rossi, che tra l’altro sono quelli che soffrono maggiormente di questa disattenzione, dividendo i quindici campioni che avevamo a disposizione in tre gruppi: i vini a base Carignano, quelli a base Cannonau e i vari uvaggi, anche con alcune varietà autoctone pressoché sconosciute come bovale, cagnulari, nieddera, caddiu e altre ancora. Il pubblico, letteralmente sorpreso dalla forte personalità dei vini, dal loro grado di eleganza e di qualità complessiva, ha posto l’accento sui tre vini che hanno particolarmente brillato nelle rispettive classi: il Carignano del Sulcis Superiore Terre Brune 2008 della Cantina di Santadi nell’omonimo comune, poi il Cannonau di Sardegna Riserva Keramos 2008 delle Tenute Soletta a Codrongianos e, per finire, il Turriga Isola dei Nuraghi 2008 di Argiolas a Serdiana. Ma tutti i vini assaggiati, e lo sottolineiamo con forza, si sono rivelati di una categoria superiore a qualsiasi ottimistica previsione. Non tarderemo a darvene cronaca dettagliata sul numero de Il Consenso che uscirà in prossimità del Vinitaly 2013.

G.B.

    

 

 ROERO 2009

Il territorio che identifichiamo con il nome di Roero, si estende su una superficie di 416,86 Km² e comprende 24 Comuni. Esso costituisce il settore nord-orientale della provincia di Cuneo, ai confini con quella di Torino a nord e quella di Asti, ad est. L´ideale confine meridionale è rappresentato dal corso del fiume Tanaro, nel tratto che da Pollenzo tocca Alba per dirigersi, poi, verso Asti. Area già abitata in epoca romana, per le fiorenti viticulture qui impiantate, il Roero è però terra spartita tra le diverse fazioni operanti in Piemonte nel Medioevo. La storia del Roero si collega con la storia delle Casane astigiane che dominarono su queste rocche, tra queste particolare influenza ebbe la famiglia dei Roero che diede il nome alla zona.

Geologicamente il Roero è di formazione pliocenica dell’era Terziaria, risalente a cinque milioni di anni fa (contro i 15 delle Langhe), e tra le sue zolle è ancora possibile ritrovare numerosi fossili marini lasciati dal ritiro delle acque Padane. Ricco di calcio, fosforo, potassio e svariati microelementi, si riscontra però una certa povertà di sostanza organica. Il clima è in prevalenza arido, le precipitazioni medie annuali sono al di sotto della media nazionale, tra i 650-720 mm, e quasi tutto il periodo estivo si presenta caldo con moltissime giornate di sole. Forse perché l’agricoltura roerina ha sposato nei secoli molte colture diverse, dal grano alla frutta, alle quali ha riservato i terreni più felici, la vite qui non ha mai avuto una situazione di privilegio. Ha dovuto ricavarsi spazio sui versanti più alti delle colline, nei terreni più magri e sabbiosi dove le altre colture non rendono a sufficienza, trovando così, naturalmente, le posizioni meglio esposte ed oggi più conosciute. Eppure la grande considerazione di cui ha sempre goduto il Nebbiolo nell’economia vitivinicola della zona, dal medioevo in poi, è ampiamente testimoniata dalle documentazioni commerciali e notarili delle casate nobili, che quando stipulavano contratti con i massari o lasciavano eredità o elencavano inventari attribuivano sempre ad uve e vigneti di Nebbiolo un valore almeno doppio rispetto alle altre.

Raramente utilizzato per rifornire gli eserciti di passaggio, ai quali venivano inviati vini di minor pregio, veniva

invece ricercato dalla nobiltà torinese, anche per la caratteristica tipologia dolce che ben si adattava al Nebbiolo coltivato nel Roero. Fin dal 700, nelle cantina dei conti di Guarene, se ne produceva di tipo dolce e amabile, oltre a quello secco, ma soprattutto all’inizio del ‘900, in piena Belle Epoque, il Nebbiolo del Roero veniva utilizzato come base per produrre gli spumanti rossi dolci allora di gran moda. E ancora negli anni ’50 se ne poteva trovare di frizzante amabile. Oggi il fascino di questo vino non si è esaurito, anche se la tipologia secca si è definitivamente affermata ed una scelta ragionata degli impianti ha arricchito i vigneti di substrati geologici più ricchi che assecondano maggiormente la struttura del Nebbiolo.

Dal nome del territorio prende il nome la DOCG Roero che contraddistingue il vino rosso ottenuto con Nebbiolo minimo 95% oltre all’eventuale aggiunta di uve provenienti da vitigni raccomandati per la regione Piemonte fino ad un massimo del 5%.

Il vitigno Nebbiolo: caratteristiche ampelografiche

È un vitigno a maturazione lenta, predilige zone con elevate somme termiche e con buona luminosità, anche se teme il sole cocente, soffre l’umidità e le piogge primaverili che possono causare filatura e colatura, è sensibile all’oidio ma ha una buona resistenza alla peronospora e alla muffa grigia. L’uva Nebbiolo si distingue dalle altre varietà italiane ed internazionali per la composizione del suo quadro polifenolico: è un’uva ricca di tannini più che di antociani, anche se questi ultimi risultano composti da elementi non particolarmente stabili all’ossidazione, con conseguenti difficoltà di vinificazione che si rivelano superiori rispetto ad altri vitigni destinati alla produzione di grandi vini rossi. Presenta tralci lunghi color cannella intenso, con foglia di media grandezza, tri o pentalobate.

Il grappolo è medio o anche grande, di forma piramidale allungata, generalmente compatto, spesso con presenza di un’ala maggiormente pronunciata; l’acino è medio, rotondo ma con tendenza all’ellissoide, con polpa molto ricca di zucchero. La buccia è sottile ma resistente, di colore violaceo scuro, molto pruinosa da

sembrare grigia. Ne esistono diverse sottovarietà delle quali le più importanti sono Lampia, Michet e Rosé. In effetti è alla sottovarietà Lampia che vanno ricondotti tutti i sinonimi, essendo il Michet una mutazione genetica del Lampia dovuto a virosi ed il Rosé un parente di primo grado del genotipo Lampia.

Il risultato della degustazione

La linea di demarcazione la traccia il Tanaro e solo pochi chilometri dividono realmente le colline delle Langhe da quelle del Roero, ma da un punto di vista temporale la distanza è enorme, vale circa 10 milioni di anni e passa dal Miocene al Pliocene.

Geologicamete il Roero è formato da depositi marini piuttosto giovani ed emersi con il ritiro del mare da tutta la pianura Padana; il poco tempo che ci separa da quell’evento non ha permesso che questi depositi si compattassero per sedimentarsi in marne ed arenarie come nelle Langhe, ma ha dato vita a formazioni sabbiose come le sabbie di Asti e ad alcune formazioni di marne sabbiose stratificate.

Da un punto di vista orografico le colline del Roero si presentano piuttosto movimentate e scoscese a causa di numerosi calanchi e della pronunciata erosione causata dai fattori climatici che hanno scavato valli e declivi irti e ripidi.

’impiego agricolo di questo territorio è caratterizzato dalla presenza di diverse colture arboree nelle parti pianeggianti, mentre sulle colline ha trovato posto la viticoltura che si presenta prevalentemente a giropoggio, anche se su alcuni crinali molto inclinati è possibile vedere alcune vigne a rittochino.

La zona di produzione dei vini Roero e Roero Arneis si estende su un’ampia superficie collinare sulla sponda sinistra del fiume Tanaro e comprende integralmente o parzialmente 19 comuni per un totale di 630 ettari vitati che danno origine ad una produzione di circa 40.000 ettolitri di vino, in prevalenza Arneis, mentre solo 5.300 ettolitri di Roero sono ottenuti con uve nebbiolo. Altri vini prodotti su questo territorio sono il Nebbiolo d’Alba ed il Barbera d’Alba.

La degustazione di ieri sera, con una diecina di Roero Riserva 2009, ci è servita innanzitutto per valutare lo stato dell’arte di questa docg e a visto prevalere il Roero Riserva Printi 2009 di Monchiero Carbone a Canale, seguito a una certa distanza dal Roero Riserva Braja 2009 di Deltetto, anch’esso di Canale, e dal Roero Riserva Bric Aut di Gian Paolo Viglione di Montà; ma soprattutto per capire quanto sia singolare la personalità di questi vini e quanta sia la distanza dai vini di Langa, che continuano a rappresentare stilisticamente l’esempio da imitare e da inseguire. Noi francamente preferiremmo che il Roero cercasse una sua via, un suo percorso capace di portare originalità, distinguibilità ai suoi vini piuttosto che rimanere una copia un po’ sbiadita dei più blasonati vini di Langa. Una ricerca tecnica che peraltro è già partita da alcune aziende langarole, e proprio da quelle che meno avrebbero bisogno di sperimentare modi diversi di vinificare le uve nebbiolo. Noi speriamo che il nascente ed autonomo Consorzio del Roero sappia farsi carico, fra i tanti e difficili compiti che lo aspettano, di ricercare uno stile, una forma, un’espressione che siano veramente autonome, originali e distinguibili; che sappiano, cioè, dare visibilità, lustro e prestigio al Roero.
Gigi Brozzoni

 I nostri soci presenti hanno preferito nell’ordine:

Bita Astori: Roero Riserva Braja 2009 di Deltetto, Roero Riserva Printi 2009 di Monchiero Carbone e Roero Riserva Giovanni Almondo

Viola Gallabresi: Roero Riserva Braja 2009 di Deltetto, Roero Bricco Medica di Val del Prete, Roero Riserva Valmaggiore di Cascina Chicco e Roero Riserva Sudisfà di Negro Angelo & Figli a pari merito

Maurizio Andreini: Roero Riserva Braja 2009 di Deltetto, Roero Riserva Giovanni Almondo e Roero Riserva Printi 2009 di Monchiero Carbone

Silvio Magni: Roero Riserva Braja 2009 di Deltetto, Roero Riserva Giovanni Almondo e Roero Riserva Printi 2009 di Monchiero Carbone

 

CABERNET FRANC

Vitigno originario del sud-ovest della Francia ed in particolare dalla zona della Gironda, come gli altri vitigni del bordolese della medesima famiglia deriverebbe dall’antica Vitis biturica descritta da Plinio e da Columella.
Alcuni documenti storici attestano la presenza in Italia di vitigni di Cabernet già a partire dal 1870 e a Portici (Napoli) esistono notizie di vigneti di Cabernet franc datate 1882.

A causa di passate confusioni a livello di propagazione è stato spesso confuso con il carmenère, ma si tratta di due vitigni differenti, come è stato evinto dal professor Scienza in uno studio nella zona della Franciacorta e anche in Cile, dove il carmenère è un po’ il vitigno nazionale. Al di fuori della sua patria d’origine il Cabernet Franc trova un vasto impiego in molti paesi, per primo nel nord est italiano, Lombardia, Veneto e Friuli, dove a volte le rese sono talmente alte da dare frutti dai profumi molto erbacei ma poco fruttati. Il Cabernet Franc è diffuso anche nei Balcani, specialmente in Kossovo e in Albania. Per lungo tempo venne piantato solo per replicare i grandi Bordeaux anche in climi non assolutamente adatti, ma negli ultimi due decenni se ne è compresa meglio l’importanza e l’utilità, ma soprattutto gli ottimi risultati che il Franc riesce a fornire nel suo habitat ottimale. Importante zona di allevamento delle uve Cabernet Franc è la California del nord, con le sue nebbie umide
che raffreddano molto il clima dove questa varietà si trova a suo agio e riesce a produrre ottimi vini anche in purezza. Anche la costa orientale degli Stati Uniti, nel nord con un clima freddo e pungente, ha iniziato una coltivazione di qualche ettaro. Ora si inizia a diffondere anche in Argentina, Australia e Nuova Zelanda, sempre nelle zone più fredde dei paesi, per ottenerne le rese migliori.

Grappolo di medie, medio-piccole dimensioni, cilindro-conico, mediamente compatto con acino medio-piccolo, di forma sferoidale, buccia pruinosa, spessa, consistente e di colore nerobluastro. È un vitigno che predilige terreni collinari, ciottolosi, argillosi e argillo-calcarei. Ben si presta a elevate densità di impianto che possono contribuire al controllo della vigoria, soprattutto se associate a forme di allevamento come il cordone speronato.
Mediamente resistente a peronospora, oidio e marciume acido; molto sensibile alla botrite. Particolarmente sensibile a disseccamento del rachide e alla carenza di potassio.

Il Cabernet Franc ha scelto casa – Il risultato della degustazione

Chissà cosa sarà successo più di un secolo fa, quando per rimediare ai danni della fillossera si decise di importare in Italia il cabernet franc e invece arrivò il carmenère? Chissà quanti vivaisti furono interessati a questa enorme operazione di moltiplicazione di barbatelle innestate su radici americane, nessuno dei quali si accorse che non erano di cabernet franc? Chissà cosa successe ai nostri istituti enologici che per più di un secolo non si accorsero che quello che chiamavano cabernet franc era invece carmenère? Chissà cosa pensavano fosse il cabernet franc i vivaisti italiani, che per un secolo hanno prodotto milioni di barbatelle fasulle? Chissà cosa guardavano i nostri ricercatori, quando individuavano e omologavano nuovi cloni di cabernet franc senza accorgersi che le descrizioni ampelografiche non corrispondevano all’originale vitigno bordolese? Chissà perché i nostri legislatori, che sanno degli errori fatti in passato, non provvedono a regolamentare correttamente le normative e i disciplinari di produzione?

Ciascuno potrà darsi le risposte che crede: noi, non essendo votati a combattere né i simbolici mulini a vento né i concreti muri di gomma nazionali, sappiamo che le nostre sono domande retoriche alle quali nessuno darà mai risposte credibili.

Allora preferiamo restare ancorati alle nostre esperienze pratiche e concrete che consistono semplicemente nello stappare bottiglie, perché sappiamo che alla fine il vino non mente e le risposte ai nostri quesiti è più facile che giungano da una bottiglia. E in effetti la degustazione di ieri sera al Seminario Veronelli è stata particolarmente eloquente; ci ha parlato delle doti qualitative di un vitigno ritenuto difficile da tutta l’enologia del mondo, ci ha rivelato i caratteri organolettici estremamente raffinati ed eleganti di un vitigno ritenuto rustico dai più, ci ha indicato che la costa tirrenica della Toscana, da Lucca a Grosseto, è un territorio estremamente favorevole a questo vitigno ed in particolare ci ha confidato che il territorio di Bolgheri è un ambiente magico per il cabernet franc, quello vero, quello autentico e certificato dai vivaisti francesi.

Da Bolgheri, vale a dire Castagneto Carducci, in provincia di Livorno, vengono i due vini preferiti dal nostro pubblico: il Paleo Rosso Toscana 2009 dell’azienda agricola Le Macchiole ha incantato per la sua straordinaria ampiezza ed eleganza, ponendosi al vertice dei consensi; a breve distanza si è piazzato il Dedicato a Walter Toscana Cabernet Franc 2009 della Tenuta Poggio al Tesoro della veneta famiglia Allegrini, con la sua ricchezza, intensità e finezza rigorosamente equilibrate; a qualche distanza è, poi, giunto il Duemani Toscana Cabernet Franc 2009 dell’azienda Duemani di Riparbella (Pisa), con la sua grande generosità e compattezza regolate da superba classe; ancora un passo indietro e ci siamo trovati un’originalissima e personale interpretazione del Cabraia Rosso Toscana 2009 dell’azienda Gualdo del Re di Suvereto (Livorno), con aromi mentolati e pepati di sicura raffinatezza.

Ora, però, dobbiamo fare due ragionamenti che solitamente preferiamo evitare, perché oggi ci è impossibile non notare che i due vini preferiti dal nostro attento pubblico sono praticamente di due dirimpettai, con alcuni tratti comuni: Le Macchiole di Cinzia Merli, moglie e continuatrice di Eugenio Campolmi fondatore dell’azienda che fu l’artefice dell’avventura con il cabernet franc, ha i suoi vigneti sul lato ovest, verso il mare, della strada Bolgherese; Poggio al Tesoro è governato (mi si passi il termine così desueto ai giorni nostri) da Marilisa e Franco Allegrini, che hanno il loro vigneto di cabernet franc alla stessa altezza della Bolgherese ma sul versante est, verso i colli, ed hanno dedicato il loro vino al fratello Walter, che fu l’iniziatore dell’avventura toscana della famiglia Allegrini. Entrambi i vigneti furono ideati, progettati e realizzati nei primi anni Novanta da Luca d’Attoma, il quale ancora oggi vinifica i vini de Le Macchiole. L’azienda Duemani, che ha piazzato al terzo posto il suo Cabernet Franc, fa riferimento alle mani di Elena Celli e Luca d’Attoma, che di concerto gestiscono biodinamicamente questa azienda sulle colline Pisane. E allora ci viene facile affermare con sicurezza che Bolgheri ha due eccezionali Grand Cru Classé di Cabernet Franc, oltre a quelli classici ormai noti e arcinoti. In più vogliamo porci un’ultima domanda, sicuramente retorica: chissà che Luca d’Attoma non abbia un bel feeling con il Cabernet Franc? Gigi Brozzoni

I nostri soci presenti hanno preferito nell’ordine:

Bita Astori: Cabraia Rosso Toscana 2009 dell’azienda Gualdo del Re di Suvereto (Livorno), Paleo Rosso Toscana 2009 dell’azienda agricola Le Macchiole e Dedicato a Walter Toscana Cabernet Franc 2009 della Tenuta Poggio al Tesoro  a pari merito con  Duemani Toscana Cabernet Franc 2009 dell’azienda Duemani di Riparbella (Pisa) 

Silvio Magni: Paleo Rosso Toscana 2009 dell’azienda agricola Le Macchiole e Dedicato a Walter Toscana Cabernet Franc 2009 della Tenuta Poggio al Tesoro e Cabraia Rosso Toscana 2009 dell’azienda Gualdo del Re di Suvereto (Livorno) a pari merito con Duemani Toscana Cabernet Franc 2009 dell’azienda Duemani di Riparbella (Pisa)

 

OLIO EXTRAVERGINE D’OLIVA 2012

Si è svolta la consueta tappa annuale degli incontri di degustazione dedicati all’Olio extra vergine di oliva, con un’ampia panoramica di oli prodotti in tante regioni italiane, dal Veneto fino alla Sicilia, con numerosissime cultivar e tutti provenienti dalla raccolta del 2012.

Quest’anno abbiamo scelto di non parlare per l’ennesima volta di questioni tecniche, che rimangono comunque affascinanti ed imprescindibili per prodotti di alto profilo qualitativo, ma abbiamo voluto affrontare i temi più legati alla distribuzione, alla commercializzazione ed alla comunicazione del mondo dell’olio extra vergine di oliva italiano. Abbiamo notato come l’attenzione e la cura che il vignaiolo riserva alla vite, alla sua gestione stagionale, alla ricerca del migliore periodo di vendemmia ed alla rapidità del passaggio in cantina per avviare le operazioni di vinificazione con le migliori attrezzature siano pressoché le stesse che occorre riservare all’olivo. La stessa cura delle potature, la gestione della chioma per facilitare tutte le operazioni necessarie, la ricerca del miglior periodo per la brucatura manuale di ciascuna varietà, la rapidità dell’avvio dei processi di estrazione e la cura igienica degli impianti di estrazione e dei serbatoi di conservazione dell’olio. È questo parallelismo che lega la viticoltura all’olivicoltura e che accomuna in un’ unica persona o azienda la produzione di vino ed olio, con la stessa cura, con la stessa cultura, con gli stessi obbiettivi.

Questi elementi creano, però, a parere nostro una distorsione nei sistemi distributivi, perché se è vero che il miglior luogo per esporre le proprie bottiglie è l’enoteca specializzata o la carta dei vini del grande ristorante, così non è per l’Olio extra vergine di oliva, che avrebbe più bisogno di essere esposto sugli scaffali delle grandi gastronomie, alle quali ci si rivolge prevalentemente per l’acquisto di generi alimentari. Un’altra barriera ad un mercato che sia in grado di apprezzare realmente l’eccellenza degli oli è la scarsa conoscenza da parte del pubblico dei caratteri organolettici che contraddistinguono la loro superiore qualità e la classe di sapore alla quale appartengono. È troppo poco sapere che ci sono oli dolci o piccanti, che ci sono gli oli liguri e quelli toscani o pugliesi o siciliani. Occorre fare cultura dell’olio, un po’ come si è fatto con il vino, raccontandolo, descrivendolo, facendolo degustare, mettendolo a confronto nel migliore dei modi; ma tenendo anche conto che l’olio non lo si consuma da solo, non è un bicchiere di vino da bere facilmente, ma è solo un condimento che accompagna, crudo o cotto, un alimento e che alla fine sarà quest’ultimo a prendersi il merito della riuscita del piatto, mentre ci si dimenticherà presto del ruolo che avrà avuto l’olio impiegato.

C’è ancora molto da fare, sia da parte nostra nel raccontare queste temi, sia da parte di chi produce e vende olio. Del mondo del vino si dovrà fare tesoro delle esperienze e competenze raggiunte, ma inserite in un più specifico ambito alimentare e gastronomico.

Con la degustazione di ieri sera il nostro pubblico, attentissimo e preparato, ha sottolineato l’alta qualità nel gusto Dolce dell’Olio Extra Vergine di Oliva di Casale del Frate a Partanna (Trapani); nel gusto Dolce/Piccante dell’Olio Extra Vergine di Oliva Val di Mazara Nocellara del Belice Denocciolato di Planeta a Menfi (Agrigento); nel gusto Piccante/Dolce dell’Olio Extra Vergine di Oliva Aulo dell’Azienda Elisabetta a Cecina (Livorno); nel gusto Piccante dell’Olio Extra Vergine di Oliva Berardenga Raggiolo Denocciolato di Felsina a Castelnuovo Berardenga (Siena).

Due denocciolati e due no, ma tutti quelli degustati nella serata sono oli di grandissima qualità e personalità. La cronaca dettagliata con il racconto di ciascun olio sul prossimo numero de Il Consenso.

Gigi Brozzoni

 

i nostri Soci presenti hanno così votato:

Elisabetta Astori: Dolce, Olio Extra Vergine di Oliva di Casale del Frate a Partanna, Dolce/Piccante Olio Extra Vergine di Oliva Nocellara di Capua Winery a Manciano, Piccante/Dolce Olio Extra Vergine di Oliva Aulo dell’Azienda Elisabetta a Cecina, Piccante Olio Extra Vergine di Oliva Raggiolo Berardenga Denocciolato di Felsina a Castelnuovo Berardenga.

Viola Gallabresi: Dolce Olio Extra Vergine di Oliva San Colombano di Trabucchi a Illasi, Dolce/Piccante Olio Extra Vergine di Oliva Val di Ma zara Nocellara del Belice di Planeta a Melfi, Piccante/Dolce Olio Extra Vergine di Oliva Aulo dell’Azienda Elisabetta a Cecina e Extra Vergine di Oliva di Felsina a Castelnuovo Berardenga a pari merito, Piccante Olio Extra Vergine di Oliva Leccino di Capua Winery a Manciano.

Maurizio Andreini: Dolce Olio Extra Vergine di Oliva Nocellara di Capua Winery a Manciano, Dolce/Piccante Olio Extra Vergine di Oliva Val di Ma zara Nocellara del Belice di Planeta a Melfi, Piccante/Dolce Olio Extra Vergine di Oliva Pendolino Berardenga Denocciolato di Felsina a Castelnuovo Berardenga, Piccante Olio Extra Vergine di Oliva Raggiolo Berardenga Denocciolato di Felsina a Castelnuovo Berardenga.

 

IL PINOT NERO

Le origini

Dopo l’editto di Domiziano del 92 d.C. che proibì l’impianto di nuovi vigneti in Italia e prescrisse l’espianto della metà delle superfici coltivate a vite nelle province, le prime notizie storiche relative ad un’uva riconoscibile come antenato dei Pinot si hanno nel 312, in un documento di ringraziamento indirizzato dai cittadini della città di Autun, nell’odierna Borgogna, all’imperatore Costantino. Tale documento descrive in modo dettagliato le pratiche viticole di quel territorio con sufficiente precisione da farne un esempio di viticoltura “per protezione”: questa espressione descrive i primi stadi del processo di domesticazione, cioè l’insieme di operazioni che porta alla selezione di individui dotati di particolari caratteristiche produttive a partire da una popolazione selvatica. È molto probabile che il vitigno citato nel documento fosse un antenato del pinot nero poiché quest’ultimo – che, com’è noto, esprime oggi i vini più importanti proprio in Borgogna – possiede effettivamente alcune caratteristiche comuni alle viti selvatiche: tipologia fogliare, dimensione dei vinaccioli, dimensione dei grappoli e degli acini, elevato polimorfismo, presenza di antranilato di metile nei mosti. Nuovi incroci e ibridazioni ebbero luogo tra i progenitori del pinot nero e le varietà portate in Gallia dalle legioni dell’Imperatore Probo, provenienti dall’oriente: da quegli incroci nacquero vitigni importanti quali Chardonnay e Gamay.

Alla caduta dell’Impero Romano seguì un periodo di decadenza economica e politica, e fu solo con i Franchi che si assistette al recupero dei vecchi vigneti ad opera degli ordini monastici cui Carlo Magno (800 – 814) affidò larga parte delle terre coltivabili: un ruolo particolare selezione del materiale genetico che si era originato spontaneamente da seme nei secoli precedenti ebbe il convento di Bèze, cui furono affidati numerosi appezzamenti nella Côte d’or, tra cui il famoso Clos de Bèze a Gevrey-Chambertin. Dal VII al XV secolo in Borgogna venne quindi promossa un’incessante azione di selezione clonale e, contemporaneamente, furono messe a punto tecniche colturali e di vinificazione specifiche per quella varietà, nota dal XII secolo sino all’epoca postfillosserica con il nome generico di plant (il nome alternativo “pinot” appare nei documenti solo a partire dal XIV secolo). Proprio grazie al lavoro dei monaci borgognoni avvenne l’incrocio determinante per l’emergere, all’interno della variegata famiglia dei pinot, dell’antenato diretto dell’odierno pinot nero: le moderne tecniche di analisi genetica, infatti, ci consentono di individuare i “genitori” del pinot nero nel pinot meunier, vitigno ancestrale di tutti i pinot, e nel traminer (quando ancora non era aromatico.

Per arrivare al pinot nero che conosciamo oggi, tuttavia, saranno necessarie le selezioni effettuate nel XVIII secolo dopo la cosiddetta piccola glaciazione, quando i viticoltori francesi isolarono cloni caratterizzati da una produttività maggiore e relativamente più ricchi di colore.

Gli studi ampelografici condotti nell’Ottocento evidenziarono una caratteristica peculiare di questo vitigno: la grande variabilità intravarietale dovuta all’alta frequenza con cui il pinot nero è soggetto a mutazioni generiche naturali, da cui

talvolta sono nati vitigni dalle caratteristiche molto diverse dall’originale, come il pinot grigio e il pinot bianco.

Oggi i cloni di pinot nero sono divisibili in due grandi tipologie: i cloni fini, selezionati in Borgogna per produrre vini rossi di qualità, e i cloni produttivi, selezionati invece in Champagne e destinati alla produzione di basi spumante.

La diffusione

In Italia il pinot nero si diffusea partire dal 1800 grazie alla produttività costante e all’elevato tenore zuccherino delle sue uve. Tuttavia raramente fu utilizzato per produzioni di qualità, essendo nella maggior parte dei casi vinificato in uvaggio. La particolare delicatezza del frutto nei climi caldi determinò il drastico ridimensionamento della diffusione del pinot nero in Italia in occasione della ricostruzione postfillosserica.

Oggi l’Oltrepò Pavese rappresenta l’area di maggior diffusione con 2.500 ha impiantati e destinati in massima parte alla vinificazione in bianco. L’area geografica dove il pinot nero ha però dato i frutti migliori è l’Alto Adige, luogo in cui il vitigno ha trovato mesoclimi più adatti.

Nel cosiddetto Nuovo Mondo, le produzioni più interessanti si registrano nell’Oregon e in Nuova Zelanda, dove si producono Pinot Nero di buona qualità.

Peculiarità viticole ed enologiche

Com’è noto il pinot nero è un vitigno decisamente difficile da coltivare e vinificare: a livello viticolo il vigore elevato complica la gestione della chioma, la sensibilità alla botrite e all’oidio ne fanno un uva fragile dal punto di vista sanitario e il fatto che in moltissimi areali la maturità fenolica delle bucce non coincida con quella dei vinaccioli espone al rischio di originare vini caratterizzati da una tannicità un poco scomposta. La carenza di antociani può dare problemi di colore, mentre il ridotto contenuto di acidi espone il mosto al rischio di attacchi batterici. Oltre ad un mesoclima adatto alla sua

coltivazione, dunque, sono necessarie cure maniacali in vigneto e in cantina perottenere un grande vino da uve pinot nero.

Il risultato della degustazione

Nonostante si stia per l’ennesima volta riscrivendo la sua storia (a proposito, pare che questa sia quella definitiva) e con essa tutta la storia della viticoltura europea, il fascino del pinot nero non conosce tregua. Appena si fa il suo nome, prima ancora di esprimere opinioni o valutazioni, il viso di qualcuno si illumina e il sorriso si fa più visibile sul volto di tanti appassionati di vino. Eppure la sua produzione nostrana è alquanto limitata e relegata a pochissime regioni e lo stesso accade nel mondo, dove, oltre naturalmente a quello di Borgogna che è la sua patria natia, se ne produce poco in Oregon e ancora meno in Nuova Zelanda. Se scorriamo le pagine delle carte dei vini dei maggiori ristoranti italiani scopriamo che i Pinot Nero del nostro Paese generalmente si contano sulle dita di una mano, mentre sono ben più numerosi i vini di stampo bordolese. Se poi andassimo a curiosare nelle cantine dei tanti appassionati scopriremmo che forse di Pinot Nero ce ne saranno due o tre bottiglie. E allora mi viene in mente Il Fascino discreto della borghesia, il famoso film di Louis Bunuel, nel quale gli invitati per un motivo o per l’altro non riusciranno mai ad iniziare la cena per la quale sono stati chiamati. Oppure al film Sideways di Alexander Payne nel quale i due amici ci parlano di Pinot Nero per poi dichiarare che la bottiglia più preziosa che hanno in cantina è un bordolesissimo Cheval Blanc. Che il Pinot Nero sia quindi l’ara sulla quale sacrificare tutti i nostri sogni enologici insoddisfatti e disattesi? Tutte le bottiglie che avremmo voluto assaggiare ma che non abbiamo avuto il denaro o il coraggio di acquistare e nemmeno l’occasione di assaggiare?
Fatto sta che ieri sera abbiamo puntualizzato l’origine di questo importante vitigno generato dall’intraprendenza e dal lavorio di schiere di viticoltori che hanno incrociato, seminato e riprodotto numerosi vitigni in alcuni e lunghi secoli della storia vitivinicola europea. Ora è certo: il pinot nero nasce dall’incrocio tra il pinot meunier ed il traminer, quando il primo popolava incontrastato tutto il centro Europa ed il secondo non era ancora aromatico, e dalla sua alta variabilità nacquero successivamente le varianti bianche e grigie.

Ieri sera il nostro fidato pubblico è stato messo di fronte a quattordici calici di Pinot Nero provenienti da diverse regioni italiane accendendo entusiasmo ma anche una netta competitività regionale, ma prima di tutto si è dovuto ricordare che il pinot nero è un vino opposto alle mode imperanti: ha un colore chiarissimo quando da tutto il mondo arrivano vini inchiostro; ha profumi di frutti freschi e fragranti mentre dal mondo arrivano vini confettura; ha bisogno di essere e affinato in barriques quando tutti i santoni predicano di botti grandi, acciaio e cemento; e da ultimo sono vini che inducono alla maleducazione in quanto impediscono la “creanza” di lasciare residui di vino nella bottiglia, nel senso che la si scola tutta fino alla fine.

I giudizi finali, largamente prevedibili da parte nostra, hanno premiato un paio di vini a pari merito dell’Alto Adige che per fragranza, finezza e freschezza non hanno avuto rivali: l’Alto Adige Val Venosta Pinot Nero Castel Juval 2009 della Tenuta Unterortl e l’Alto Adige Pinot Nero Sanct Valentin 2009 della Cantina di San Michele Appiano. Alle loro spalle un quartetto molto composito fatto di Alto Adige Pinot Nero Riserva Cornell Villa Nigra 2009 della Cantina Produttori Colterenzio, l’Alto Adige Pinot Nero Mason di Mason di Manincor, il lombardo San Giobbe dell’azienda La Costa ed l’inaspettato Cabreo Black Toscana Pinot Nero 2009 delle Tenute del Cabreo.

Facce soddisfatte, molte chiacchiere, tanti confronti, riassaggi, commenti e sorrisi.

Gigi Brozzoni

I nostri soci presenti hanno così votato:

Elisabetta Astori: Cabreo Black Toscana Pinot Nero 2009 delle Tenute del Cabreo, Alto Adige Pinot Nero Sanct Valentin 2009 della Cantina di San Michele Appiano, Alto Adige Val Venosta Pinot Nero Castel Juval 2009 della Tenuta Unterortl a pari merito con Alto Adige Pinot Nero Riserva Cornell Villa Nigra 2009 della Cantina Produttori Colterenzio.

Maurizio Andreini: Alto Adige Pinot Nero Sanct Valentin 2009 della Cantina di San Michele Appiano, Alto Adige Pinot Nero Riserva Cornell Villa Nigra 2009 della Cantina Produttori Colterenzio, Cabreo Black Toscana Pinot Nero 2009 delle Tenute del Cabreo.

Carlo Giupponi: Alto Adige Pinot Nero Sanct Valentin 2009 della Cantina di San Michele Appiano, Alto Adige Pinot Nero Riserva Cornell Villa Nigra 2009 della Cantina Produttori Colterenzio, Cabreo Black Toscana Pinot Nero 2009 delle Tenute del Cabreo.

Silvio Magni: Alto Adige Pinot Nero Sanct Valentin 2009 della Cantina di San Michele Appiano, Alto Adige Pinot Nero Riserva Cornell Villa Nigra 2009 della Cantina Produttori Colterenzio, Cabreo Black Toscana Pinot Nero 2009 delle Tenute del Cabreo

 

COLLIO BIANCO 2011

Il nome Collio significa collina, e da sempre è riferito al vino delle alture che sorgono a ridosso del confine fra Italia e Slovenia. L’area vitivinicola si estende nella fascia settentrionale della provincia di Gorizia, in un territorio di 1600 ettari di vigneti di collina nei comuni di Gorizia, Capriva del Friuli, Cormòns, Dolegna del Collio, Farra d’Isonzo, Mossa, San Lorenzo Isontino e San Floriano del Collio.

La storia di queste terre e delle loro vigne è antichissima: i primi vigneti sorsero già in epoca preromana e, successivamente, il loro sviluppo fu tanto impetuoso che, nel III secolo d.C., l’imperatore Massimino proprio nel Collio requisì una quantità di botti e tini tale da poter costruire un ponte di legno sul fiume Isonzo per permettere alle sue legioni di raggiungere la ribelle Aquileia. Nel Collio la viticoltura fu praticata con continuità durante tutto il Medioevo e a partire dal Cinquecento i vini prodotti divennero famosi e apprezzati in tutta Europa: dalla Serenissima Repubblica di Venezia all’Imperatore Carlo V, dallo zar di Russia all’aristocrazia di Vienna. In particolare nella capitale dell’Impero Austroungarico nell’Ottocento giungevano quotidianamente carri carichi di grandi botti provenienti dal Collio.

I vini prodotti sotto l’omonima Denominazione d’Origine Controllata restituiscono fedelmente le caratteristiche di una terra straordinaria, tra il Mare Adriatico e le Alpi Giulie. La zona collinare collocata a breve distanza dai monti e dal mare è, infatti, caratterizzata da un microclima unico per ventilazione ed escursione termica: in abbinamento alla “ponca”, il caratteristico terreno del Collio fatto di marne di origine eocenica, crea un ambiente ideale per la coltivazione della vite.

La produzione enologica è in massima parte concentrata sui vini bianchi vinificati in due grandi tipologie: da una parte i cosiddetti vini varietali, cioè da monovitigno, come Sauvignon Blanc, Pinot Grigio, Friulano e Ribolla Gialla, dall’altra vini creati per assemblaggio, in grado di restituire – più che il patrimonio aromatico di una singola varietà – le caratteristiche uniche di questo grande terroir, spesso di una singola vigna. Nei vini Collio Bianco l’obiettivo comune a molte aziende è quello di unire le uve migliori al fine di creare un vino di alta qualità per finezza e complessità aromatica, potenza e longevità.

Il risultato della degustazione

Dovendo stilare una classifica delle aree viticole italiane il cui territorio “marchi” maggiormente i vini che vi si producono, il Collio Goriziano si piazzerebbe sicuramente ai primi posti. Ne ha dato prova la degustazione di Collio Bianco 2011 tenutasi ieri presso la sede del Seminario Permanente Luigi Veronelli: l’assaggio di vini della medesima annata, realizzati con l’impiego di differenti vitigni e tecniche di vinificazione è forse il modo migliore per valutare quanto profondo sia il contributo di questo territorio al profilo organolettico delle cuvée. Attraverso una ricostruzione delle scelte produttive, spesso inedite e coraggiose, compiute dalle aziende goriziane a partire dagli anni ’80 – forti del sostegno del Consorzio Collio – è stato possibile ripercorrere le principali tappe che hanno portato alla piena valorizzazione di questa impronta territoriale, facendone un elemento chiave anche a livello d’identità commerciale. La denominazione Collio Bianco si è sviluppata, infatti, seguendo una prospettiva opposta e complementare rispetto a quella dei cosiddetti vini varietali: declinare le potenzialità del Collio non soltanto nei grandi vini monovitigno capaci di competere con i varietali prodotti in ogni parte del mondo, ma anche proponendo un’identità unica, fondata sui vitigni locali, su assemblaggi che valorizzassero la complessità e l’ampiezza dell’impronta aromatica territoriale. Identità che si è nel tempo arricchita della tipologia “Riserva”, a sottolineare la straordinaria capacità d’invecchiamento di questi meravigliosi vini bianchi. Ecco dunque che è stata progressivamente messa a punto l’idea di “vino aziendale”, un vino, cioè, progettato con l’obiettivo di proporre un’interpretazione del terroir secondo uno stile riconoscibile, legato a un marchio, a un’azienda, a una storia precisa. Accanto al patrimonio territoriale è proprio il lavoro dell’uomo, infatti, a trovare piena espressione in questa tipologia: cuvée sostanzialmente simili per composizione, marcate in modo nitido dalla “ponca” e dal clima del Collio, sono risultate all’assaggio decisamente originali e differenti. Accanto a vini giocati su aromi fruttati e ossidativi, con netta prevalenza di note morbide e mature, ne sono stati infatti proposti altri che fanno dell’eleganza floreale, spesso ricca di inflessioni vegetali, il loro punto di forza.

La preferenza dei degustatori è andata al Collio Bianco Zuani Vigne 2011 della Società Agricola Zuani di San Floriano del Collio (GO), che – con la sua grazia fresca, vegetale e salina – ha prevalso piuttosto nettamente sul secondo classificato, il Collio Bianco Ronco Antico 2011 di Tenuta di Angoris di Cormons (GO), mentre il gradino più basso del podio è stato conquistato dal Collio Bianco Solarco 2011 dell’Azienda Agricola Livon di San Giovanni al Natisone (UD). Tre vini, tre stili che ben rappresentano una delle più importanti realtà dell’enologia italiana.

Andrea Bonini 

I nostri soci presenti hanno preferito:

Bita Astori: Collio Bianco Zuani Vigne 2011 della Società Agricola Zuani di San Floriano del Collio (GO), Collio Bianco Ronco Antico 2011 di Tenuta di Angoris di Cormons (GO); Collio Bianco Roncùs dell’Azienda omonima di Capriva del Friuli (GO);

Carlo Giupponi: Collio Bianco Ronco Antico 2011 di Tenuta di Angoris di Cormons (GO), Collio Bianco Solarco 2011 dell’Azienda Agricola Livon di San Giovanni al Natisone (UD) e Collio Bianco Sanfilip dell’Azienda Coltello di Grotta di Farra d’Isonzo (GO);

Silvio Magni: Collio Bianco Zuani Vigne 2011 della Società Agricola Zuani di San Floriano del Collio (GO), Collio Bianco Vigneti Frontiere dell’Azienda Fantinel di Spilimbergo (PN) e Collio Bianco Ronco Antico 2011 di Tenuta di Angoris di Cormons (GO).

 

 

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