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Mar 06 2016

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CARLO PETRINI ALL’UFFPOST

“Siamo un Paese destinato a invecchiare, senza energia. Ripartiamo dai contadini”

Trent’anni fa nasceva Slow Food, un movimento che ha piantato un seme con radici oggi divenute profonde nel nostro Paese e con rami e foglie che sono cresciuti talmente tanto, da essere riusciti ad abbracciare il mondo intero, con una presenza costante e fattiva in 170 Paesi nel mondo. Il merito va al suo fondatore, Carlo (Carlìn) Petrini, che di anni ne ha sessantasei anni e che è stato incluso dal Guardian tra le 50 persone destinate a salvare il pianeta, dopo che il Time lo ha eletto “eroe europeo del nostro tempo”. Una gran soddisfazione per un gastronomo originario di Bra, in provincia di Cuneo, che è stato capace di creare un marchio di interesse mondiale, abbracciando la filosofia della lentezza e del lusso di vivere il pasto come un piacere.

A lui si deve, inoltre, il Salone Internazionale del Gusto di Torino, la rete di Terra Madre e la creazione dal nulla dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, una sorta di Woodstock della biodiversità che oggi ha più di cinquecento iscritti. Per festeggiare questi primi trent’anni, è stato ripubblicato in una nuova edizione, curata da Giunti e da Slow Food Editore, il suo libro-manifesto, ‘Buono, Pulito, Giusto’, “un libro che ha l’ambizione di sviluppare idee, accrescere consapevolezze e suscitare passioni”, come ha spiegato Petrini all’HuffPost.

Trent’anni di Slow Food, un compleanno importante considerando come e da dove è partito. Cosa rappresenta per lei questa meta, che poi, a citare le sue parole, “è solo un nuovo inizio”?

Trent’anni del nostro movimento hanno significato essenzialmente due cose. La prima: collocare la cultura del cibo al centro di dinamiche di trasformazione della società civile e dell’economia, oltre che della politica, una cosa che trent’anni fa non aveva questi connotati. Un modo per comprendere che la cultura del cibo ha delle connessioni fortissime a livello di ecologia, di politica, di politica economica, tutte molto importanti in questo momento. La seconda: l’essere usciti – parlo di Slow Food – dai confini nazionali trovando radici in centosettanta Paesi nel mondo anche grazie a Terra Madre. Questo è stato possibile grazie ad un’ intelligenza affettiva, quella del cuore, che è più forte rispetto a quella razionale, e a quella che io chiamo l’austera anarchia, che consente alla rete di essere più produttiva, perché essa si diffonde, si allarga e si consolida su questi due elementi.

Buono, Pulito, Giusto: è il titolo scelto dieci anni fa, e oggi riproposto, per il suo libro: più che un titolo, sembra uno slogan. Iniziamo dalla prima parola: cos’è ‘Buono’ per Petrini?

E’ buono ciò che piace. È il rispetto degli altri e di se stessi, è una cosa molto seria. Nel definirlo, sono determinanti due fattori soggettivi: il sapore – che è un fattore personale, legato alla sfera sensoriale di ciascuno di noi – e il sapere – che è un fattore culturale, legato all’ambiente, alla storia delle comunità, del savoir faire e dei luoghi. Un prodotto è buono se è riconducibile a una certa naturalità che ne rispetti il più possibile le caratteristiche originarie, e se dà sensazioni riconoscibili e piacevoli che permettono di giudicarlo in un determinato momento, in un determinato luogo e all’interno di una determinata cultura. Fondamentali sono, poi, la sensorialità – che si deve rieducare e tenere in costante allenamento – e il gusto – che è l’insieme di sapore e di sapere. Tra la sfera percettiva e quella culturale esiste un legame molto stretto: cambia a seconda che si è ricchi o poveri, che ci sia abbondanza o che si abbia fame, che si viva in una foresta o in una metropoli, ma il gusto, per tutti, è il diritto a trasformare in piacere il proprio sostentamento quotidiano. Non bisogna, poi, dimenticare che l’integrità naturale della materia prima, il suo rispetto, servono a coltivare e a percepire il buono. La bontà di un prodotto è proporzionale alla sua naturalità. Il buono ha caratteristiche organolettiche superiori e il nuovo gastronomo dovrà rispettarle, dovrà imparare a riconoscerle, produrle, favorirne la produzione secondo la cultura in cui vive, e di preferirle sempre. È un impegno politico. La politica serve per migliorare la qualità della vita e il buono ha la medesima funzione.

Il ‘Pulito’?

Essere pulito è il secondo requisito che un prodotto alimentare deve avere per essere definito di qualità. Anche pulito risponde a un criterio di naturalità, ma in base ad uno sviluppo concettuale diverso da quello attribuito al buono. Un prodotto è pulito nella misura in cui la sua filiera risponde a certi criteri di naturalità, se è sostenibile. Sarà pulito, poi, nella misura in cui è sostenibile dal punto di vista ecologico.

Terzo, ma non ultimo, il ‘Giusto’.

Il giusto deve essere alla base della nostra società, prima di ogni altra cosa. Non è possibile che coloro che producono il nostro cibo siano considerati dei reietti e siano costretti a vivere tra non poche difficoltà. Occorre, quindi ripensare ad un sistema affinché quest’umanità sia riconosciuta nel suo ruolo fondamentale: non possiamo fare a meno dei contadini – loro coltivano anche il nostro cervello – e non possiamo fare a meno delle comunità produttrici. Occorre rimettere al centro gli esseri umani, la terra, il cibo, una rete del cibo umana che, in armonia con la natura e il rispetto di ogni diversità, promuova la qualità, appunto il buono, il pulito e il giusto. Esasperare il Made in Italy sfruttando la povera gente deve finire: non bisogna avere paura delle diversità, perché la diversità porta forza e ricchezza. Siamo un Paese che invecchia se non troviamo qualcuno che ci porta nuova energia.

Non si può non parlare di cibo senza comprendervi anche la religione, con cui da sempre c’è una forte connessione. Lei ha un particolare legame con la religione e soprattutto con Papa Francesco, essendo stato l’autore della Guida alla Lettura della sua Enciclica Laudato si’, ma – soprattutto – perché è uno dei pochi, assieme a Scalfari, ad aver ricevuto una sua telefonata. Che cosa vi siete detti?

Sono molto d’accordo quando si sottolinea la connessione tra cibo e religione. Il cibo è l’energia per la vita, recitava lo slogan dell’Expo, e deve essere connesso con quello che ci circonda. Quando il Papa mi ha telefonato, ero a Parigi per lavoro. Una chiamata con un numero non disponibile: pensai subito che fossero quelli di Repubblica (Petrini collabora con diversi quotidiani, ndr). “Sono Papa Francesco”, mi fa una voce dall’altro lato della cornetta. “E io son Carlìn Petrini”, gli ho risposto. (ride). Per tutto il tempo della nostra telefonata, abbiamo parlato delle nostre nonne. La sua era solita dire: “Quando moriamo, non ci sono tasche nel sudario”. Decisi allora di parlargli della mia, che era una cattolica sabauda di Bra, che sposò un macchinista ferroviere, tale Carlo Petrini, che nel 1921 fondò il partito comunista. Una nonna, la mia, fedele a Gesù Cristo, ma soprattutto a quel marito, a mio nonno, e lo fu a tal punto che quando Pio XII, nel 1948, scomunicò i comunisti, diede una risposta particolare al prete che non voleva assolverla al momento della confessione, proprio perché sposata con un comunista. “Non me la può dare? Allora se la tenga”, gli rispose. Questo racconto fece ridere molto il Papa e dato che oramai eravamo in confidenza, gli dissi anche la mia sui preti, e cioè che chi fa come il prete dice, va in paradiso, chi fa come il prete fa, va al diavolo. “E’ una risposta anticlericale”, mi rispose Sua Santità, ma non si offese affatto. In quell’uomo c’è una saggezza a piene mani che pesca dalla cultura contadina e dai valori più semplici. Sono un grande amante di quelli che oggi si chiamano canti etnologici, ma io continuo a chiamarla più semplicemente musica popolare, il canto epico-lirico che ci fa vedere cosa accadeva in certi ambienti in determinati periodi storici. Dissi al papa che secondo me li cantavano anche a casa sua e lui mi rispose che era vero.

Dal suo libro emerge che il cibo è un veicolo fondamentale nel riconoscimento dei nostri diritti, è un diritto fondamentale delle persone: non è solo una merce, perché appartiene ai beni comuni. Se è così, cosa bisogna fare per non fargli perdere quel valore?

Sì, è come dice lei. Recuperare il giusto valore del cibo è il nostro compito e lo dobbiamo fare come persone che davanti ad esso recuperano la loro identità. Occorre, però, ricordare che esso coinvolge la sociologia, l’antropologia, la genetica, la biologia, e altro ancora fino alla cucina stessa. E’ il terreno su cui l’olismo e la multidisciplinarietà che non è ancora passata si devono conformare. Bisogna, quindi, assumere la visione olistica del cibo in quanto argomento che può diventare anche un impegno politico. Dall’altro, bisogna rafforzare una rete che crei l’elemento distintivo dell’essere con questa terra che è la fraternità. È una rete che definisco, come già ricordato, “austeramente anarchica”, una rete che esalta il protagonismo dei territori.

A proposito di politica, uno dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti, Bernie Sanders, nel suo ipotetico programma di governo, parla di economica familiare, di biodiversità e di altre tematiche molto care a Slow Food sin dalla sua istituzione. Sembra che Sanders abbia tratto ispirazione proprio da lì e dalle parole di Petrini: lo ha notato?

Lo so e mi fa molto piacere! (ride). E’ una cosa che ha colpito anche me. La presentazione del suo programma ha generato, in tal senso, un’attenzione inimmaginabile, dieci anni fa, negli Stai Uniti. Sono sicuro che non vincerà, perché su di lui avrà la meglio Hillary Clinton, ma Hillary non potrà non tener conto di quei principi e di quei bisogni, soprattutto se vorrà i giovani dalla sua parte.

E in Italia? E’ contento della situazione politica?

\C’è un detto, che ho stampato nella mia mente: “poco è poco, ma niente è troppo poco”. La sinistra, la mia amata sinistra, non sta facendo niente su più fronti, soprattutto per i profughi. Un giorno, la storia ci chiederà dove eravamo in quei momenti e non sarà facile rispondere. Occorre realizzare strutture e contatti civili territoriali per garantire un processo di accoglienza di queste masse di profughi, lasciati in balìa di loro stessi. La piaga di questo esodo è impressionante. I contadini accoglievano i partigiani durante la resistenza, perché noi non possiamo farlo? Facciamo quel ‘poco’ richiesto e daremo così un segno di civiltà a questo amato Paese.

fonte: L’Huffington Post  |  Di Giuseppe Fantasia, 06.03.2016

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