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Ott 05 2011

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LE DEGUSTAZIONI DI AUTUNNO DEL SEMINARIO VERONELLI

 

 

IL PIGNOLO

IL GRECO DI TUFO

LE DECLINAZIONI DEL NEBBIOLO

NERO D’AVOLA VS VITIGNI INTERNAZIONALI

IL PIGNOLO
Qualsiasi testo ambisca a trattare compiutamente la storia del vino dovrebbe dedicare un corposo capitolo ai monasteri. Se, infatti, la Chiesa ha svolto una funzione fondamentale nell’attribuire al vino il suo significato simbolico, esaltandone il valore sacrale nella celebrazione dell’Eucarestia e, insieme, consolidando il rapporto di familiare quotidianità con esso, sono stati soprattutto gli ordini monastici a preservare in concreto la vitivinicoltura europea da un abbandono quasi completo. L’avvento del Medioevo, con il crollo della civiltà romana, le invasioni barbariche e la conseguente decadenza delle campagne e dell’agricoltura, aveva generato una forte contrazione della domanda di vino, sostituito col consumo di bevande alcoliche derivanti dalla fermentazione di frutta o di altri prodotti spontanei. In quel frangente, a causa del valore fondamentale rivestito dal vino all’interno della liturgia ecclesiastica, i monasteri, i conventi e le abbazie di varie parti d’Europa cominciarono a coltivare l’uva e a circondarsi di vigneti, divenendo autentici conservatori di varietà e depositari di abilità teoriche e pratiche che avrebbero altrimenti rischiato l’oblio. Fra le Abbazie che si distinsero per l’attenzione riservata ai propri vigneti è senz’altro da annoverare quella friulana di Rosazzo, situata in comune di Manzano e fondata nel X secolo d.C. da alcuni monaci regolari di Sant’Agostino giunti dalla Lombardia. Nei secoli successivi l’Abbazia venne abitata da comunità benedettine e domenicane, arricchendosi di privilegi, proprietà, terreni, ma anche di pregevoli opere d’arte e d’architettura. La chiesa di San Pietro, consacrata nel 1070, venne distrutta da un incendio nel 1509 e riedificata intorno al 1530 ad opera dell’architetto cividalese Venceslao Boiani; nel coro sono conservati affreschi del pittore giorgionesco Francesco Torbido (1535), mentre la Crocifissione che orna l’antico refettorio è opera di Battista dell’Angelo detto il Moro. All’interno del chiostro si trovano, invece, due meravigliose bifore, probabilmente del XII secolo, raffiguranti le sante Caterina d’Alessandria e Scolastica. Oggi l’Abbazia rosacense è divenuta un centro di cultura e di sperimentazione religiosa, rivolto a favorire il dialogo e lo scambio di esperienze tra le tre etnie (latina, slava e germanica) che da sempre si sono incrociate in quest’area.
Anche la remota e fondamentale missione di salvaguardia della cultura viticola non sembra del tutto sopita ed ancora di recente l’Abbazia di Rosazzo si è distinta quale custode delle antiche vestigia della nostra civiltà enoica, conservando per anni con discrezione una vetusta varietà friulana quasi irrimediabilmente perduta, il pignolo. Vitigno presente da secoli sulle colline di Rosazzo, è già citato nel 1417 in alcuni documenti della città di Udine; nel XVII secolo l’abate e poeta Giobatta Michieli lo decanta in alcuni versi  el ditirambo Bacco in Friuli (Del bel Turro sulla sponda / il buon vin alligna e abbonda / che del dolce Berzamino / ne berrei per poco un tino / e vorrei sempre esser solo / nel ber a tazze piene il buon Pignolo). Nel 1823 viene inserito nella sezione friulana del Catalogo delle viti del Regno Veneto, compilato dall’amministrazione asburgica, mentre nel 1863, alla mostra delle uve tenuta dall’Associazione Agraria Friulana, viene apprezzato dalla Commissione, che così lo descrive: “Il Pignolo di Rosazzo… dà ottimo vino; la vite non è delle più abbondanti, ma… si ritiene il Pignolo fra le varietà friulane più degne di essere raccomandate”. Non mancarono pareri discordi, tanto che il prof. Zanelli intorno al 1920 ebbe a scrivere: “Piuttosto ci è dato di poter estendere con asseveranza le esclusioni di vitigni di qualità inferiore qual è il Pignûl, di maturanza ineguale e che non sarebbe affatto indicato per la vigna bassa, avendo l’abito a far molto legno e sfemminellare all’infinito”.
Con ogni probabilità, tuttavia, non fu tale stroncatura a far cadere in disgrazia il pignolo, quanto piuttosto la sensibilità all’oidio e la scarsa produttività, che spinsero i vignaioli a trascurarne sempre più la coltivazione, decretandone, insieme alla fillossera, la quasi completa estinzione nei vigneti friulani. Tutto ciò sebbene ancora nel 1939 il Poggi sottolinei come “…di tutta l’antica viticoltura, il Pignolo… è certamente l’esemplare degno di maggior rilievo e forse anche di una nuova diffusione… Una reintroduzione nelle migliori località collinari e pedecollinari e nelle aziende viticole di avanguardia potrebbe riuscire utile dal lato enologico ed il vino, che ha caratteri suoi particolari, inconfondibili, contribuirebbe quasi certamente a creare tipi fini e superiori”. Parole profetiche che dovranno attendere almeno quarant’anni per trovare conferma.
La rinascita del pignolo, infatti, prese le mosse solo sul finire degli anni Settanta. Erano ormai pressoché introvabili i rarissimi ceppi sopravissuti dell’antico vitigno, quando nel 1979 un appassionato vignaiolo, Walter Filiputti, iniziò ad accudire proprio le vigne dell’Abbazia di Rosazzo, scoprendo due vecchie viti di pignolo a piede franco “addossate al muro che guarda a mezzogiorno”; solo due superstiti, dunque, ma don Nadaluzzi, che da tempo se ne prendeva cura, non aveva dubbi sulla loro assoluta eccellenza. Da quei ceppi derivano le marze che hanno rinfoltito i vigneti di pignolo dei Colli Orientali, un’opera di recupero condotta, insieme a Filiputti, anche da altri produttori, come Girolamo Dorigo, e gratificata dall’assegnazione di alcuni “Risit d’Aur” (1980 a Dorigo, 1983 all’Abbazia di Rosazzo), premio creato nel 1975 dalla distilleria Nonino per la salvaguardia dei più rappresentativi vitigni autoctoni friulani (ribolla, schioppettino, tazzelenghe e pignolo) ed ttribuito ai vignaioli che ne abbiano messo a dimora il miglior impianto. Entrato nella doc Colli Orientali del Friuli nel 1995, attualmente il pignolo è coltivato in oltre 30 ettari di vigneti sulle colline intorno a Rosazzo, Buttrio, e Premariacco (significativo il fatto che nel 2000 gli ettari fossero poco più di 7) ed è divenuto uno dei vitigni a bacca rossa più interessanti del panorama viticolo friulano; il suo grappolo piccolo, cilindrico, compatto (caratteristica da cui deriva, forse, il nome), gli acini medio-piccoli, tondeggianti, con buccia spessa e coriacea dal colore blu-nero sembrano perfetti per dar vita ad un vino dalla tonalità rubino molto carica, con intensi aromi speziati e di frutti di bosco ed un gusto consistente, concentrato, sorretto da una trama tannica serrata, fitta ed avvolgente. La miglior prova della qualità e dell’attuale vitalità del pignolo è, però, offerta dal numero sempre più vasto di produttori che con esso si cimentano, realizzandone versioni di grande valore ed ambizione che paiono fatalmente destinate ad esprimere i rossi di punta delle singole aziende, così come di un intero territorio.
Marco Magnoli

Il risultato della degustazione
In medio stat virtus, ovvero “la virtù sta nel mezzo“; sebbene non possiamo dichiararci strenui sostenitori di questa locuzione latina, l’esito della serata di ieri è stato tuttavia, sotto questo profilo, inequivocabile. Ma andiamo con ordine.
Ieri sera sono ripresi gli incontri del lunedì con la degustazione dei Pignolo del 2007: vino raro e prezioso dei Colli Orientali del Friuli, sopravvissuto miracolosamente all’abbandono che la viticoltura friulana ne aveva  ecretato per via di due sue caratteristiche colturali: la scarsa produttività e la sensibilità all’oidio, che riduceva ulteriormente la sua redditività. Ne rimasero alcuni ceppi sotto l’Abbazia di Rosazzo e ci vollero l’estro e la sensibilità di Walter Filiputti, divenuto alla fine degli anni Settanta gestore delle vigne di proprietà della Curia di Udine, per far rinascere questo antico vitigno, partendo da due viti che don Nadaluzzi, il vecchio frate addetto alla campagna, assicurava di assoluta eccellenza. Dalle due viti degli anni settanta siamo giunti fino ad oggi, per trovarci comunque con un modesto patrimonio viticolo, visto che in tutto il Friuli, tra la Doc Isonzo e Colli Orientali, si contano poco più di 60 ettari di pignolo che corrispondono a circa 250.000 bottiglie di vino. Una micro produzione, quindi, ma di un vino con una spiccatissima personalità e riconoscibilità. Deve il suo nome alla forma del suo grappolo, piccolo, compatto e serratissimo come una pigna, ma è anche così aromatico da ricordare il legno di cedro, di abete e larice, ovvero legni impregnati di resina; la sua personalità è, poi, ravvivata da piacevoli note di mentuccia e liquerizia. Al gusto mostra immediatamente una decisa vitalità acida ed una folta tannicità dal piglio incisivo e fiero, che soltanto un lungo invecchiamento è capace di mitigare. Tutt’altro che facile da gustare da solo, diventa ottimo compagno di piatti saporiti, speziati e selvatici.
Ieri sera avevamo sui tavoli sei ottimi campioni, tra i quali tre hanno subito catturato le attenzioni del nostro pubblico: ad una estremità abbiamo trovato la fragranza, la precisione e la schietta personalità del COF Pignolo 2007 di Graziano Specogna da Corno di Rosazzo; all’opposto avevamo la concentrazione, la densità, il vigore e la potenza del vino COF di Michele Moschioni da Cividale del Friuli; in mezzo (medio) il COF Rosazzo Pignolo 2007 di Ronco delle Betulle, ovvero Simone Adami da Manzano. Noi, essendo aspiranti estremisti-masochisti, ci saremmo buttati senza esitazioni sul vino di Moschioni, per farci inebriare dal suo energico potere; il pubblico, invece, più prudente e riflessivo, ha scelto la virtus quae in medio stare videtur, ovvero il Colli Orientali del Friuli Rosazzo Pignolo 2007 di Ronco delle Betulle. I nostri complimenti a Simone Adami e famiglia, ma anche a tutti i vignaioli che vorranno continuare a coltivare il Pignolo, grande vitigno della nostra amata Patria.
(G.B.)
I nostri soci hanno così votato: Bita Astori Colli Orientali del Friuli Rosazzo Pignolo 2007 di Ronco delle Betulle, Colli Orientali del Friuli Pignolo Monte dei Carpini di Giovanni Dri Il Roncat, e Colli Orientali del Friuli Pignolo di Michele Moschioni rispettivamente; Silvio Magni ha votato Colli Orientali del Friuli Rosazzo Pignolo 2007 di Ronco delle Betulle, Colli Orientali del Friuli Pignolo Monte dei Carpini di Giovanni Dri Il Roncat a pari merito con Colli Orientali del Friuli Pignolo di Leonardo Specogna e Colli Orientali del Friuli Pignolo di Michele Moschioni

 

IL GRECO DI TUFO
Vitigno originario della Tessaglia, in Grecia, ed importato in Italia dai Pelasgi che ne diffusero la coltivazione in tutte le zone del meridione di loro influenza.
Carlucci, nel 1909, basandosi sulla presenza di inconfondibili grappoli doppi, ipotizza che il Greco coltivato a Tufo discenda dalla Aminea gemina minor (o Aminea gemella) descritte da Virgilio, Catone, Verrone, Columella e Plinio Il Vecchio.
Diffuso in tutto il centro e il sud Italia, è particolarmente diffuso in Campania e parzialmente in Puglia, ma lo si può trovare anche nelle province di La Spezia, Massa Carrara, Lucca, Latina e Viterbo.
Ha grappolo piccolo-medio, compatto, di forma conica con ala molto sviluppata al punto di dare un grappolo doppio. L’acino è di piccole dimensioni, sferoidale, con buccia mediamente pruinosa, sottile e tenera, di colore grigio-giallastra ricoperta da punteggiature brunastre.
È un vitigno produttivo che predilige terreni profondi, sciolti di origine vulcanica e freschi; in terreni derivati dal disfacimento di arenarie e ricchi di carbonato di calcio, come quello di Tufo, il vino prodotto raggiunge maggiori complessità, armoniosità e finezza.
Si adatta bene alle forme di allevamento a spalliera, sia a guyot che a cordone speronato.
Sensibile alla muffa grigia, tollera bene la peronospora e l’oidio.
Il Greco di Tufo è un vino bianco prodotto da uva greco coltivata nei comuni di Tufo, Chianche, Altavilla Irpina, Santa Paolina, Montefusco, Torrioni, Prata di Principato Ultra e Petruro Irpino in provincia di Avellino.
È un vino molto antico, di lui Plinio il Vecchio diceva ‘In verità il vino Greco era così pregiato, che nei banchetti veniva versato solo una volta’. La dimostrazione della sua origine antica si è avuto con il ritrovamento a Pompei di un affresco appartenente al I secolo a.C., dove veniva espressamente nominato il “vino greco”, la cui coltivazione avvenne inizialmente alle pendici del Vesuvio, per poi diffondersi nell’Avellinese.
Il vino Greco di Tufo ha ottenuto il riconoscimento della Denominazione di Origine Controllata e Garantita con Decreto Ministeriale del 18/07/2003.

Il risultato delle degustazioni
Se l’esordio delle nostre serate è stato all’insegna del raro e prezioso mondo del Pignolo, alla seconda puntata siamo passati direttamente ad un vino bianco di larga diffusione: dal potenziale di sole 250.000 bottiglie del Pignolo agli oltre 5 milioni di bottiglie del Greco di Tufo. Siamo in Campania, con uno dei migliori vini bianchi prodotti in questa regione, che si pone anche ai vertici della produzione nazionale. L’area di coltivazione è a nord di Avellino, con epicentro Tufo; ovvero un nome e un fatto, dal momento che i suoli di questa microarea sono effettivamente costituiti dai tufi originati dalle esplosioni piroclastiche del sistema vulcanico campano a cavallo del Pleistocene ed Olocene (12-11 migliaia di anni fa), su un substrato di arenarie e argille del Miocene (5-10 milioni di anni fa). Siamo in una regione meridionale, ma questo lembo di Irpinia, al 41° parallelo nord, ha vigneti che vanno dai 300 metri di altitudine ed arrivano fino a 550 metri, con un clima ben più fresco di quanto si possa supporre. Il vitigno Greco ha origine in Tessaglia e fu diffuso nel meridione d’Italia dai Pelasgi (2.500 anni fa). La particolare forma del suo grappolo, con una ala sviluppata al punto da farlo sembrare doppio, lo rende talmente inconfondibile da aver messo d’accordo tutti gli ampelografi, che lo fanno risalire all’Aminea Gemina Minor (o Aminea Gemella) descritto da Virgilio, Catone, Varrone, Columella e Plinio Il Vecchio. Da questa serie di numeri e notizie scaturisce il nostro Greco di Tufo, che nel millesimo 2010, nonostante qualche sporadica grandinata e alcuni attacchi di peronospora, ha dato uve di buona-ottima qualità. Vinificazione ed affinamento sono quasi sempre all’insegna della freschezza, ma vi sono alcune versioni affinate in legno che riescono ad aumentare la complessità, pur mantenendo una buona integrità varietale. I vini mostrano un complesso quadro aromatico, imperniato su un frutto dolce e maturo ma elegantemente agrumato e rinfrescato da accenni vegetali che estendono la fragrante piacevolezza. In alcuni vini si affacciano sfumature floreali e speziate di notevole fascino complessivo.
Tra i dieci campioni degustati ieri sera è, però, emerso il Greco di Tufo Cutizzi 2010 di Feudi di San Gregorio, un vino che ha nettamente surclassato gli altri campioni presentati (per altro tutti di ottima bontà), raccogliendo una rara unanimità di consensi da parte del numeroso pubblico presente.
Infine, per far meglio comprendere ai degustatori le grandi potenzialità di questo vitigno e di queste terre, abbiamo chiuso la serata con un vino del 2009, che per classe ed eleganza ci pare abbia pochi rivali: era il Greco di Tufo Giallo d’Arles di Quintodecimo, la piccola azienda del professor Luigi Moio, presidente della Commissione Enologica dell’O.I.V., cioè il maggior organismo di governo del mondo vitivinicolo. Che seratina, eh?
G.B.

I nostri Soci presenti hanno votato:
Bita Astori: Greco di Tufo 2010 di Nativ, Greco di Tufo Cutizzi 2010 di Feudi di San Gregorio, Greco di Tufo Terrantica Etichettta Bianca 2010 di I Favati, nell’ordine
Cristiano Gotti: Greco di Tufo Tenute di Altavilla 2010 di Villa Matilde, Greco di Tufo 2010 di Nativ, Greco di Tufo Cutizzi 2010 di Feudi di San Gregorio nell’ordine
Oliviero Manzoni: Greco di Tufo 2010 di Di Meo, Greco di Tufo 2010 di Nativ, Greco di Tufo Tenute di Altavilla 2010 di Villa Matilde, nell’ordine
Silvio Magni: Greco di Tufo 2010 di Nativ, Greco di Tufo Cutizzi 2010 di Feudi di San Gregorio, Greco di Tufo Terrantica 2010 di I Favati, nell’ordine

 

IL NEBBIOLO

Origini e cenni storici
Considerato tra i grandi cinque vitigni rossi mondiali, il nebbiolo rappresenta una delle grandi sfide enologiche per identità e difficoltà di vinificazione. I primi documenti storici che parlano di questo vitigno risalgono all’inizio del trecento, con la famosa opera del bolognese Pier de’ Crescenzi, ma è solo a partire dal XIX secolo che il Nebbiolo viene frequentemente citato nelle opere dei più famosi ampelografi. Il suo nome, secondo alcuni, deriverebbe da “nebbia” in quanto i suoi acini sembrano quasi annebbiati dall’abbondante pruina, mentre secondo altri sarebbe da mettere in relazione alla tardiva maturazione delle uve che obbliga sovente a vendemmiarle all’epoca delle prime nebbie autunnali.
In un convegno svoltosi a Sondrio nel 2004, viene per la prima volta resa pubblica una notizia a dir poco rivoluzionaria perchè ribalta tutto quanto si è sempre pensato sull’origine di questo vitigno. In effetti dagli studi della dott.ssa Schneider sulla mappatura genetica del Nebbiolo, emerge l’attribuzione di paternità al vitigno Freisa. Sempre da questo studio risulta inoltre che questo vitigno non ha avuto un’origine langarola per poi spostarsi verso regioni site più a nord ma proprio il contrario. Il vitigno infatti è stato selezionato in ambienti molto più freddi, come ad esempio la Valtellina (dove viene chiamato chiavennasca) e si è spostato successivamente nelle Langhe dove ha trovato un habitat sicuramente più favorevole, che gli ha dato modo di sviluppare appieno le sue potenzialità.

Caratteristiche ampelografiche
È un vitigno a maturazione lenta, predilige zone con elevate somme termiche e con buona luminosità, anche se teme il sole cocente, soffre l’umidità e le piogge primaverili che possono causare filatura e colatura, è sensibile all’oidio ma ha una buona resistenza alla peronospora e alla muffa grigia. L’uva Nebbiolo si distingue dalle altre varietà italiane ed internazionali per la composizione del suo quadro polifenolico: è un’uva ricca di tannini più che di antociani, anche se questi ultimi risultano composti da elementi non particolarmente stabili all’ossidazione, con conseguenti difficoltà di vinificazione che si rivelano superiori rispetto ad altri vitigni destinati alla produzione di grandi vini rossi. Presenta tralci lunghi color cannella intenso, con foglia di media grandezza, tri o pentalobate.
Il grappolo è medio o anche grande, di forma piramidale allungata, generalmente compatto, spesso con presenza di un’ala maggiormente pronunciata; l’acino è medio, rotondo ma con tendenza all’ellissoide, con polpa molto ricca di zucchero. La buccia è sottile ma resistente, di colore violaceo scuro, molto pruinosa da sembrare grigia. Ne esistono diverse sottovarietà delle quali le più importanti sono Lampia, Michet e Rosé. In effetti è alla sottovarietà Lampia che vanno ricondotti tutti i sinonimi, essendo il Michet una mutazione genetica del Lampia dovuto a virosi ed il Rosè un parente di primo grado del genotipo Lampia.

Zone di coltivazione
In Italia lo troviamo coltivato in Valle d’Aosta, Piemonte e Lombardia. Produce i più importanti vini rossi piemontesi come Boca, Bramaterra, Carema, Fara, Nebbiolo d’Alba, Roero, Gattinara, Ghemme, Barbaresco e Barolo. In Valle d’Aosta il Donnas e l’Arnad Montjovet; in Lombardia il Terre di Franciacorta rosso e tutti i grandi vini rossi della Valtellina con le quattro sottozone (Sassella, Grumello, Inferno, Valgella) e lo Sforzato o Sfurzat da uve appassite. Nel mondo troviamo produzioni negli Stati Uniti (non soltanto in California ma anche in New Mexico, Arizona, Pennsylvania, Idaho, Oregon, Virginia e Washington), in tutta l’Australia meridionale compresa l’isola di Tasmania, nel cuore della Constantia Valley, nel lembo più meridionale dell’Africa, nelle regioni settentrionali del Northland, una delle isole che compongono la Nuova
Zelanda, ai piedi della cordigliera delle Ande, in Svizzera e in Austria.

Le declinazioni del Nebbiolo
PIEMONTE
Barolo docg
Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba ed in parte il territorio dei comuni di Monforte d’Alba, Novello, La Morra, Verduno, Grinzane Cavour, Diano d’Alba, Cherasco e Roddi in provincia di Cuneo.
Nebbiolo 100%.
Resa 80 q.li ettaro –Invecchiamento almeno 3 anni di cui 2 in botti di rovere o di castagno; Riserva 5 anni
Barbaresco docg
Barbaresco, Neive, Treiso e la frazione “San Rocco” del comune di Alba in provincia di Cuneo.
Nebbiolo 100%.
Resa 80 q.li ettaro – Invecchiamento 2 anni di cui almeno 1 in botti di rovere o di castagno; Riserva 4 anni
Gattinara docg
Gattinara in provincia di Vercelli
Nebbiolo min. 90%, Uva Rara e/o Vespolina(massimo 4%) fino a 10%.
Resa 75 q.li ettaro – Invecchiamento 3 anni; Riserva 4 anni.
Ghemme docg
Ghemme e Romagnano Sesia in provincia di Novara
Nebbiolo min. 75%, Vespolina e/o Uva Rara fino a 25%.
Resa 80 q.li ettaro – Invecchiamento 3 anni; Riserva 4 anni.
Boca
Intero comune di Boca e parte dei comuni di Maggiora, Cavallirio, Prato Sesia e Grignasco in provincia di Novara
Nebbiolo 45-70%, Vespolina 20-40%, Uva Rara fino a 20%.
Resa 90 q.li ettaro – Invecchiamento 3 anni di cui 2 in botti di rovere o di castagno
Carema
Il territorio di Carema in provincia di Torino
Nebbiolo minimo 85%; altri vitigni massimo 15%.
Resa 80 q.li ettaro – Invecchiamento almeno 3 anni di cui almeno 2 in contenitori di legno non superiori a 40 hl
Langhe Nebbiolo
94 comuni in provincia di Cuneo
Nebbiolo 100%.
Resa 90 q.li ettaro – Invecchiamento non obbligatorio
Nebbiolo d’Alba
Numerosi comuni in provincia di Cuneo
Nebbiolo 100%.
Resa 90 q.li ettaro – Invecchiamento: non obbligatorio
LOMBARDIA
Sforzato di Valtellina docg
La sponda destra della valle dell’Adda in provincia di Sondrio
Nebbiolo minimo 90%. Altri vitigni massimo 10%.
Resa 80 q.li ettaro – Invecchiamento venti mesi, dei quali almeno 12 in botti di legno
Valtellina Superiore docg
La sponda destra della valle dell’Adda in provincia di Sondrio
Nebbiolo minimo 90%, altri vitigni massimo 10%.
Resa 80 q.li ettaro – Invecchiamento 2 anni di cui almeno 1 in botti di legno; Riserva 3 anni

Il risultato della degustazione

Ad una settimana dal Nebbiolo Grapes di Stresa, il Nebbiolo è stato protagonista di una magnifica serata al Seminario Veronelli, che ha voluto cercarne e analizzarne le diverse coniugazioni con i diversi ambienti naturali e culturali nei quali è coltivato e vinificato. Se al convegno di Stresa si è parlato molto delle variabili genetiche e del polimorfismo del vitigno Nebbiolo, ieri sera al Seminario Veronelli si è disquisito molto sulla sua capacità di risposta e reazione ai diversi e numerosi nodi che distinguono la complessa catena produttiva. Intendiamoci, tutti i vitigni sono sensibili ai cambiamenti colturali e culturali, ma il Nebbiolo lo fa in modo evidente, palese e con una nettissima differenzazione di carattere più che di sole sfumature. Estremamente chiaro ed esaustivo il percorso degustativo della serata. Si è partiti con la moderna, giovane e dinamica interpretazione enologica che ne fa Domenico Clerico con il suo Capisme-e Langhe Nebbiolo 2010 e con il floreale Langhe Nebbiolo 2009 di Marco e Tiziana Parusso, che documenta la cosiddetta maturità aromatica delle uve quale ultima frontiera del concetto di maturità che la ricerca sta attualmente studiando. Siamo poi passati ad analizzare le tre classiche versioni albesi partendo da un Nebbiolo d’Alba Bricco Barone 2009 di Marziano Abbona, nitido e preciso per aroma e stile, passando da un Barbaresco Martinenga 2007 di elegantissima espressività per poi andare al Barolo Parafada 2007 di Palladino dove potenza e consistenza tannica si fondono perfettamente in note floreali e fragranti. Tre sono state anche le tappe nel nord Piemonte con due vini novaresi, ma provenienti da suoli diversi: un aromaticissimo e balsamico Boca 2007 de Le Piane, cresciuto sul porfido, che ha mostrato anche una notevole consistenza tannica ed un Ghemme 2005 di Cà Nova, scaturito da sabbie alluvionali, con tannicità levigata e spezie dolci, per tornare ai suoli porfirici del Gattinara 2004 di Nervi, ricco di carattere fruttato ma anche con un piglio tannico di ottima trama. Un’ultima tappa piemontese è stata fatta in provincia di Torino, in quell’anfiteatro morenico di Ivrea con un Carema Etichetta Bianca 2007 di Ferrando dal caldo alito floreale, una nettissima nota di camino ed un tannino levigatissimo e dolce. Un nebbiolo ancora del tutto differente lo abbiamo cercato in Valtellina, dove clima e suoli son del tutto singolari ed irripetibili; siamo andati a cercare un’area del versante retico molto ad est, in una conca assolata, caldissima e lucente chiamata Inferno, e lì abbiamo trovato il Valtellina Superiore Inferno Riserva 2007 di Plozza con un frutto dolcissimo, spezie morbide e, inaspettato, un tannino fine e liscio tanto da consentire anche un leggero appassimento delle uve, che opportunamente prolungato ha dato vita allo Sforzato di Valtellina Fruttaio Cà Rizzieri 2007 di Aldo Rainoldi, dolce, morbido e caldo da sembrare velluto al tatto.
Ahimè, il giro è terminato ma il pubblico, non pago, lo vuole ripercorrere in un senso e nell’altro finché nei calici, ormai, rimane ben poco. Ed è ora di chiudere, annuncia Rossana.
G.B.

 

NERO D’AVOLA VS VITIGNI INTERNAZIONALI

In Sicilia lo studio, la sperimentazione e poi la diffusione dei vari vitigni internazionali Cabernet, Syrah, Merlot, ecc., ha messo in evidenza una particolare vocazione di numerosi territori a produrre queste uve, agevolata dalle favorevoli condizioni climatiche che portano a perfetta maturazione uve particolarmente curate. Proprio per questo, i vitigni
alloctoni sono ormai particolarmente diffusi, in particolare il Syrah, arrivato in Italia solo a metà degli anni Ottanta, attualmente è presente nell’isola con circa 5000 ettari d’estensione, pari a circa il 4% della superficie vitata della regione. Il Cabernet Sauvignon è tra i vitigni più internazionali, considerato il re dei vitigni rossi nobili, ha ottime capacità
d’adattamento alle più disparate condizioni climatiche siciliane ed alle varie tecniche di vinificazione, le sue bacche maturano tardi, e danno vita a vini dall’intenso colore scuro, tannici, con una particolare attitudine all’invecchiamento. Anche se da più parti si apprezza questo rinnovato internazionale stile enoico siciliano, c’è chi di contro, non è affatto
d’accordo sulla sempre più “californizzazione” della produzione.

IL NERO D’AVOLA
Origini e cenni storici
Il Nero d’Avola o Calabrese, rappresenta una delle migliori uve rosse della Sicilia, nonostante il nome faccia pensare ad un vitigno della Calabria. Malgrado sia una varietà quasi esclusivamente siciliana, dove è noto fin dal 1700, non si è
in grado di ricostruire quando e come esso sia giunto nell’isola.
Il termine Calabrese deriva da una deformazione del termine “Colavrisi” o “Colanlisi” da “Colla-Anlisi”, dove “colla” sta per “uva” (in siciliano) e “Anlisi” da “Avola”.
Zone di coltivazione
Nel 1868 il Mendola afferma che il vitigno Nero d’Avola veniva coltivato nell’Agrigentino, nel Catanese e nel Siracusano; nel 1870 Angelo Nicolosi annovera la varietà “fra le specie più pregiate per il vino, che in Sicilia si coltivano”. Sul finire del 1800 secondo i dati riportati in diversi Bollettini Ampelografici del Ministero Agricoltura, il vitigno Nero d’Avola era
coltivato soprattutto in provincia di Caltanisetta con qualche presenza in quella di Catania ed in epoca post-fillosserica lo si coltivava grandemente nella provincia di Ragusa e Siracusa tanto da diventare il vitigno ad uva nera prevalente, come riferito da Carpentieri nel 1920. Dopo la seconda guerra mondiale, il nero d’Avola era largamente diffuso nelle province di Siracusa, Caltanisetta, Ragusa e con buona percentuale anche in quelle di Agrigento, Messina e Catania.
Oggi, con una superficie vitata di circa quattordicimila ettari, è il vitigno più diffuso nella regione, dove dà vita ai migliori vini rossi isolani; tanto che su questa varietà, purtroppo solo da pochi anni, stanno investendo danaro e ricerca le più grandi aziende vitivinicole italiane a conferma del grande credito qualitativo di cui gode.
Il vitigno
Ha foglia media o grande, orbicolare, praticamente intera, talvolta trilobata; grappolo medio, conico, con un’ala, spesso composto e mediamente compatto; acino medio, ellissoidale od ovale, con buccia pruinosa, di medio spessore, molto resistente, di colore bluastro. Ha produzione regolare, predilige forme di allevamento poco espanse, ad alberello o a spalliera e necessita di potatura corta e povera.
Predilige terreni calcarei sciolti e calcarei-argillosi di medio impasto, possibilmente di altimetria media, ventilata ed esposta possibilmente ad est, sud-est.
Molto sensibile all’oidio, teme l’umidità e la vendemmia piovosa ed umida.
Il vino
In passato il vino prodotto era sempre stato utilizzato come da taglio, e nell’Ottocento fu protagonista di grandi esportazioni verso la Francia. Negli anni sessanta non era ancora assurto a simbolo dell’enologia siciliana e le sue potenzialità erano per lo più inespresse, anche perchè produceva un’uva ad alta gradazione zuccherina che gli permetteva di arrivare con facilità ad oltre quindici gradi alcolici. Allevandolo con particolari criteri si è riusciti ad abbassarne il contenuto di zuccheri e ad aumentarne l’acidità, e vinificandolo in purezza, con tecnologie moderne, si è rivelato come uno dei più grandi rossi italiani di struttura, dal carattere possente, intenso, armonico, caldo, predisposto all’affinamento in legni pregiati e adatto al lungo invecchiamento.
In assemblaggio è sempre più associato a Cabernet, Merlot o Syrah con risultati davvero eleganti e sorprendenti.

IL CABERNET SAUVIGNON
Origini e cenni storici
La famiglia dei cabernet deriva più o meno direttamente dalla vitis biturica, la quale, partendo dal Caucaso, è giunta, attraversando, a quanto sembra, anche l’Italia, fino alla zona di Bordeaux, dove, in seguito a selezioni ed incroci operati dall’uomo nel corso dei secoli, ha dato origine a diverse sottovarietà. Tra queste, le principali sono individuabili nel cabernet franc, nel carmenère, poco utilizzato in Francia, e nel merlot, al quale è possibile accostare il petit verdot ed il malbec, due vitigni, tuttavia, ormai quasi in disuso a Bordeaux ma che continuano a destare attenzione altrove. Diversamente da quanto si è sempre supposto, il cabernet sauvignon non deriva in via diretta dalla vitis biturica, ma rappresenta un incrocio, sicuramente ben riuscito, tra cabernet franc e sauvignon blanc, varietà appartenenti a famiglie diverse. Difatti, secondo le analisi del genoma svolte in California si tratterebbe di un antico incrocio di Sauvignon blanc per Cabernet franc. Secondat, figlio di Montesquieu, lo descrive compiutamente per la prima volta nel 1785, definendolo un “vitigno perfetto”. Proprio questa sua perfezione gli consentirà di adattarsi ai climi più diversi, ai suoli più diversi ed alle più disparate pratiche viticole ed enologiche. Per la ricerca di tutto il mondo è divenuto il termine di paragone per qualsiasi analisi, prova, indagine o sperimentazione; per la produzione è divenuto rapidamente l’elemento naturale
sul quale misurare la vocazione qualitativa dei territori e la propria capacità tecnica ed enologica.
Attualmente è il vitigno più diffuso al mondo ed è rapidamente diventato il simbolo della viticoltura internazionale e del gusto internazionale.
Zone di coltivazione
La sua diffusione nel nostro paese è relativamente recente, frutto dei modelli di viticoltura internazionale che si sono affermati negli ultimi tre decenni.
Coltivato inizialmente solo in Trentino Alto Adige, Friuli e Veneto, si è presto diffuso, anche se in modeste quantità, in ogni regione italiana e, data la sua adattabilità a climi e suoli diversi, è riuscito ad ottenere risultati molto spesso positivi. Viene impiegato in purezza o in uvaggio con altri vitigni, quali Cebernet Franc e Merlot, dando vita al famoso taglio
bordolese, ma ha dato risultati notevoli anche con altri vitigni quali il Sangiovese e il Montepulciano. In particolare, in Italia molti altri vitigni traggono beneficio dalla sua unione tanto da farne sospettare la presenza (qualche volta a torto, molte volte a ragione; qualche volta indebita, molte volte ammessa) ovunque si registrino significativi mutamenti qualitativi.
Il vitigno
Vitigno rustico, adattabile alla maggior parte dei suoli, predilige terreni poveri con buono scheletro ma ha la sua massima espressione in microclimi caldi con terreni argillo-calcarei.
Dimostra notevole resistenza a peronospera, botrite e marciume acido ma è sensibile all’oidio. Buone le produzioni ottenibili con cordone speronato, molto interessante la produzione su tralcio rinnovabile ma esclusivamente con alta densità d’impianto.
Ha foglia media, pentagonale, con sovrapposizione dei lembi dei lobi che originano delle aperture quasi circolari.
Il grappolo è medio, cilindrico piramidale, solitamente con un’ala pronunciata, mediamente compatto.
Acino da medio a piccolo, sferoidale, con buccia spessa e consistente abbondantemente pruinosa, di colore blu-nero.

IL SYRAH
Origini e cenni storici
Vitigno di origine incerta; l’ipotesi più accreditata ne presume la provenienza dal Medio Oriente e più precisamente dalla città di Shiraz (Persia). Recenti riscontri molecolari lo avvicinano al vitigno albanese Shesh e ai vitigni del Trentino Alto Adige Teroldego e Lagrein.
Zone di coltivazione
In Italia è pervenuto dalla Francia attorno alla metà dell’800, ma è solo negli ultimi anni che ha avuto un’importante diffusione nel nostro paese, arrivando ad essere coltivato su quasi tutto il territorio nazionale. Considerato soprattutto come vitigno internazionale miglioratore e quindi vinificato in taglio con vitigni autoctoni, solo da poco tempo viene vinificato in purezza.
Il vitigno
Ha foglia medio-grande, pentagonale, tri o quinquelobata. Il grappolo è medio, allungato, cilindrico, a volte alato, semispargolo. L’acino è medio, di forma ovale, con buccia molto pruinosa di colore blu e di scarsa consistenza.
Si esprime al meglio in terreni poveri, calcarei ma non superficiali. Vitigno abbastanza precoce, preferisce climi caldi e asciutti ma teme la siccità. Si adatta bene a forme di allevamento compatte, in particolare cordone speronato. Buona resistenza a peronospora e oidio, teme botrite e marciume acido.

IL MERLOT
Origini e cenni storici
Vitigno originario del sud-ovest della Francia dove viene coltivato particolarmente nella zona di Bordeaux. Dalla Francia si è esteso a tutte le zone del mondo; in Italia arriva nel 1880 ed è oggi coltivato in tutto il paese. Le prime notizie relative alla presenza di questo vitigno in Italia sono ad opera di Sannino (1875) che ne cita la coltivazione nel distretto di Conegliano.
Zone di coltivazione
Considerato uno dei vitigni miglioratori più plastici è presente su tutto il territorio italiano e viene vinificato sia in purezza che in taglio con vitigni nazionali e internazionali come il Cabernet con il quale dà vita al taglio bordolese.
Il vitigno
Vitigno precoce, raggiunge livelli di maturazione ottimali anche in microclimi freddi e si adatta a quasi tutti i terreni. Predilige sistemi di allevamento ad alta densità; è sensibile a peronospora, botrite e marciume acido mentre è resistente all’oidio. Sopporta abbastanza la siccità.
La foglia è di media grandezza, tri o quinquelobata; il grappolo è medio, con 1 o 2 ali, più o meno spargolo con acino medio, tondo, di colore blu-nero dalla buccia pruinosa di media consistenza.
Esaminando la serie storica delle superfici delle varie cultivar negli anni si nota il trend crescente del Nero d’Avola, (dal 10,33% del 2000 al 16,28% del 2010 ), oggi al secondo posto tra le varietà in Sicilia, che dopo una crescita ininterrotta dal 2000 al 2008, ha registrato per la prima volta nel 2009 un leggero calo di superficie (da 19.304 ettari nel 2008 ai 19.149 del 2009 ), ripetutosi anche nel 2010 in termini di superficie totale anche se come quota relativa risulta sempre in, seppur lieve, aumento.
Dopo anni di forte ed ininterrotta crescita (dal 2000 al 2008) si registra anche nel 2010, dopo il 2009, una leggera diminuzione di superficie per gli internazionali Merlot ( 4.898 ettari del 2008, 4.836 ha nel 2009 e 4.736 ha nel 2010) e Cabernet Sauvignon ( 3.922 ha nel 2008 ,3.831 ha nel 2009, 3.688 nel 2010). La superficie coltivata a Syrah dopo una
crescita ininterrotta dal 2000 al 2009 rimane invece pressoché invariata nel 2010 (5.461 ha )

Il Nero d’Avola è presente in tutte le nove provincie siciliane e, se in termini assoluti, Agrigento è la provincia con più ettari a Nero d’Avola (5.941 ha con una percentuale del 31,5% sul totale regionale ), seguito da Trapani (4.947 ha e 26,3%) e Caltanissetta (3.495 ha e 18,6% ), a Siracusa gli ettari investiti a Nero d’Avola (1.602 ha) rappresentano ben
l’85,4% della intera superficie vitata della provincia (86,8% nel 2009).
Il Syrah è maggiormente presente nel trapanese con quasi 3.495 ettari sui 5.461 ha regionali totali impegnati da questa cultivar (64%) seguito a distanza da Agrigento (912 ha) e Palermo (767 ha).
Il Cabernet Sauvignon, pur essendo diffuso in tutte le provincie, è prevalentemente presente nella provincia di Trapani con 2.139 ettari incidendo per il 58 % sul totale regionale.
Anche il Merlot è soprattutto coltivato nel trapanese (56% del totale regionale) e nell’agrigentino (21,5%)

Viaggio in Sicilia: il risultato della degustazione

Nel corso del nostro tradizionale Incontro del lunedì, siamo andati in Sicilia con la scusa di mettere a confronto il Nero d’Avola ed i vitigni internazionali, ma in effetti si è trattato di un modo dinamico e reattivo per capire ciò che sta succedendo alla viticoltura siciliana in questi ultimi anni. Non potevamo, dunque, esordire se non parlando della nuova Doc Sicilia, di quella grande “occasione mancata” rappresentata dalla versione da poco entrata in vigore. Pur essendo contrari, in linea di principio, alle Doc regionali, pensavamo che questa potesse essere l’occasione per formulare un vino tipicamente siciliano, incomparabile con altri vini Doc italiani e internazionali. In sostanza avremmo accolto a braccia aperte un Sicilia Rosso prodotto principalmente con Nero d’Avola e con un eventuale piccolo contributo di Perricone, o, in alternativa, di Frappato per quella parte orientale dell’isola più abituata a lavorare con quel vitigno. E invece si è preferito trasformare, pari pari, con tutte le sue più fantasiose variazioni, la vecchia Igt in Doc. Così, se prima il consumatore non riusciva a districarsi in questa confusione di vitigni, continuerà ad essere confuso anche domani, perché nulla è cambiato
Tornando al tema della nostra serata, che verteva su un confronto diretto tra due mondi vitivinicoli non necessariamente contrapposti o alternativi, ma certamente diversi, abbiamo potuto osservare alcuni passaggi significativi. Il primo riguarda il Nero d’Avola che ormai, dopo selezioni clonali, riduzione di rese per ceppo, scelte di suoli e posizione geografica dei vigneti, pare abbia sanato quel carattere un poco selvatico e brusco che aveva in passato, soprattutto nella parte orientale della Sicilia. Il secondo riguarda i vitigni bordolesi, oggi fortemente messi in discussione dai viticoltori stessi; sappiamo che il Cabernet Sauvignon in quest’isola non ha mai dato risultati eccellenti e a tal proposito ricordiamo, appunto, come le eccezioni siano state e siano tuttora sempre e solo eccezioni. Più diffuso e con risultati qualitativi più estesi è, invece, il Merlot, che dopo aver tracciato con successo una sorta di stile siciliano, sembra ora soffrire non poco le mutazioni climatiche avvertite nell’ultimo decennio e pare ormai sul viale del tramonto. Decisamente in crescita, per contro, le quotazioni del Syrah, che proprio in virtù delle medesime mutazioni climatiche sta offrendo in questi ultimi anni un panorama molto dinamico e con risultati qualitativi nettamente prestigiosi. Abbiamo assaggiato una dozzina di vini tra i quali capeggiava il Nero d’Avola – dapprima solitario, poi in un blend con il Merlot – e, in coda, alcuni Syrah. Sostanzialmente, visto che il punteggio raccolto dal primo dei Nero d’Avola e dal primo degli internazionali si equivalgono, potremmo azzardare a pensare che quella nettissima divisione che si fa tra vitigni autoctoni e alloctoni sia più di tipo ideologico che non organolettico. Sembra quasi che, vivendo in un periodo di crisi delle ideologie, o meglio ancora, di fine delle ideologie in ambito sociale e politico, qualche deluso, perdente, frustrato e, diciamolo pure, sfigato, si consoli cercando di ideologizzare il vino, pensando così di recuperare quella vivacità e credibilità irrimediabilmente persa. Ma non esageriamo e torniamo a parlare di vino, che è meglio.
Ancora una volta possiamo asserire che il Nero d’Avola, se ben coltivato e ben vinificato, non ha bisogno di tanti aiuti e sa mostrare una bella e originale personalità ai due capi dell’isola; di poco ha prevalso il trapanese Contessa Entellina Mille e Una Notte 2007 di Donnafugata sull’agrigentino Don Antonio 2008 di Morgante. Un po’ più staccato un altro agrigentino, molto fragrante ed integro, il Noto Santa Cecilia 2008 di Planeta. Sul versante degli internazionali, il maggior consenso l’ha riscosso il Sole dei Padri 2007, il Syrah palermitano dei Principi di Spadafora, seguito a breve distanza dal Carlo Alfano Nero d’Avola – Merlot 2008 dell’agrigentina Vignali Roccamora.
Nessuna pretesa di aver esaurito gli argomenti e di aver decretato il successo o l’insuccesso di niente e di nessuno, ma crediamo che questi confronti diretti in mano ad un pubblico di veri appassionati non ideologizzati possa dare dei segnali significativi che le aziende potrebbero raccogliere e valutare con molta attenzione. Per crescere e migliorare tutti.
G.B.

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