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Ott 04 2010

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LE DEGUSTAZIONI D’AUTUNNO DEL SEMINARIO VERONELLI

 

 

SAUVIGNON ALTO ADIGE vs SAUVIGNON COLLIO

MONTEREGIO DI MASSA MARITTIMA ROSSO

LACRIMA DI MORRO D’ALBA

LE ECCELLENZE DELLA GUIDA DEI VINI DI VERONELLI 2011:

LE ISOLE

IL PIEMONTE

IL CENTRO

DULCIS IN FUNDO: BOTRYTIS O NON BOTRYTIS?

IL SAUVIGNON

Origini e cenni storici
Varietà a bacca bianca dalla quale si ricavano alcuni fra i migliori vini bianchi del mondo, è originario della Francia, in particolare dal Bordolese e specialmente nella regione di Sauterne, dalla quale si è poi spostato verso la Valle della Loira per poi estendersi in diverse parti del mondo tanto che lo si può annoverare tra i cosiddetti vitigni “internazionali”.
Il nome sauvignon deriverebbe da “vite selvatica”, in francese “sauvage”.
Da non trascurare lo studio sui genomi effettuato dalla dott.ssa C. Meredith in California secondo la quale l’incrocio tra Sauvignon e Cabernet franc avrebbe dato origine al Cabernet Sauvignon.

Zone di coltivazione
Attualmente diffuso anche in California, Nuova Zelanda, Sud Africa e Australia, in Italia è arrivato nella seconda metà dell’800 e viene coltivato principalmente in Friuli, in Alto Adige, in Veneto e in Toscana. Ha grande versatilità e produce vini intensamente profumati e longevi; se attaccato da muffa nobile dà vita a vini passiti di grande eleganza e personalità.

Il vitigno
Varietà costituita da vari biotipi che si distinguono per la grandezza del grappolo e per alcune diversità negli aromi dell’uva, lo si può però definire come un vitigno vigoroso, con vegetazione fitta. Se ben coltivato, regala ai vini prodotti un profumo gusto-olfattivo decisamente coinvolgente (anche se provoca nei consumatori reazioni nettamente opposte: acceso consenso o deciso rifiuto) che si compone di note vegetali più o meno accentuate, in particolare salvia e peperone, contornate da note floreali che spaziano dalla rosa al sambuco e supportate da un consistente e maturo aroma fruttato, banana e frutto della passione soprattutto; il tocco minerale di pietra focaia è il fattore sul quale si fonda la classe dei vini prodotti con questo vitigno. È un vitigno decisamente difficile da coltivare, con produzione medio-bassa anche se costante; predilige terreni collinari asciutti, ricchi di scheletro, calcarei e consistenti sui quali riesce a caricarsi delle note minerali che caratterizzano la sua aromaticità. Poco si adatta a forme di allevamento espanse e proprio per questo si utilizzano preferibilmente cordone speronato e guyot. Esprime il meglio di sé in ambienti non troppo caldi e soprattutto con una buona escursione termica tra il giorno e la notte.
È sensibile a peronospora e oidio, molto sensibile a botrite e marciume acido. È poco resistente alla siccità ma ha una buona tolleranza all’azione del vento.
Grappolo medio o piccolo, cilindrico, alato e compatto. Acino medio grosso, sferoidale o obovale per effetto della compressione degli acini, buccia spessa, dura, di colore verde dorata, punteggiata.

Il Collio
Il Collio, zona di produzione della DOC Collio (o Collio Goriziano), è una piccolissima area collinare in provincia di Gorizia compresa tra il fiume Iudrio ed il confine con la Slovenia, posta a ridosso del Carso fra la Valle dell’Isonzo e quella dello Iudrio. È un territorio a forte vocazione vinicola, che gode dell'influsso benefico del mare (il non lontano golfo di Trieste), della positiva protezione di vicine barriere naturali (catene montuose e boschi) e di una insolazione intensa.
Il regolare susseguirsi di vallate ed alture a breve distanza le une dalle altre, inoltre, determina una inclinazione ottimale del suolo che, oltre a migliorare il drenaggio, provoca un maggiore impatto dei raggi del sole sulle viti. Ma, l'eccellenza e l'unicità dei vini prodotti in quest'area devono molto soprattutto alle caratteristiche geologiche del terreno: rocce marnose ed arenarie che in superficie si sgretolano in frammenti scagliosi e via via in argilla finissima (la cosiddetta "ponka", termine friulano che identifica la marna) e, a diverse profondità, presenta una peculiarità piuttosto rara: uno strato arenaceo-marnoso denominato facies di flysch, più o meno terrigeno, di forte spessore, di vario colore, poco fossilifero, non particolarmente fertile, povero di sostanze azotate ma che costituisce un ottimo substrato per i vigneti. Proprio questa conformazione unica conferisce ai vini del Collio la loro attitudine all'invecchiamento. Soprattutto nei vini bianchi questo crea nella DOC Collio delle condizioni uniche in Europa: esprimono la loro potenza ed il massimo della loro personalità dopo 3/5 anni di invecchiamento (uno dei motivi per cui vengono indicati dalla stampa internazionale come "Super-Whites").

L’Alto Adige
L’Alto Adige è una regione interamente montuosa, con vette che superano i 3000 metri di quota, tanto che la maggior parte del territorio supera i 1000 metri e non vi sono pianure.
Nell’alta Valle dell’Adige, Val Venosta, si sono sviluppate grandi conoidi alluvionali in corrispondenza dello sbocco di ogni valle laterale: vigneti e frutteti li ricoprono interamente.
Da un punto di vista geologico l’Alto Adige appartiene al sistema Alpino e in gran parte si sviluppa nel Subalpino o Alpi Meridionali a sud della Linea Insubrica. A nord di questa linea tettonica tutte le rocce affioranti sono state metamorfosate dall’orogenesi alpina: gneiss, micascisti, marni caratterizzano le Alpi Retiche fino al confine austriaco. Le finestre tettoniche della bassa Engadina e degli Alti Tauri mettono a nudo le unità Pennidiche.
A sud, invece, le rocce sono in parte sedimentarie a partire dal Permiano. Nel Permiano si è avuta un’importante attività vulcanica subaerea con formazione di estese colate di rocce massicce, tabulari di colore bruno-rossastro o violaceo che formano il cosiddetto “Tavolato porfirico Atesino” con spessori di centinaia di metri fino a oltre un chilometro, molto rigido e stabile.
Ritenuto in passato un porfido, è ora interpretato come una ignimbrite, roccia formatasi a seguito di violente eruzioni vulcaniche esplosive che producono flussi di lapilli e gas ad alta temperatura capaci di ricoprire velocemente aree molto estese. Queste rocce molto ricche in silice, sviluppate fra Ora e Caldaro, contribuiscono a rendere sapidi ed inconfondibili i vini della Strada del Vino.
Al di sopra dei Porfidi Atesini si succedono conglomerati, arenarie rosse con orme di tetrapodi terrestri fino ad arrivare alla sedimentazione marina con classiche dolomie triassiche associate a tufi vulcanici e depositi terrigeni.
Nei fondovalle, ai quale è prevalentemente limitata la coltivazione dei vigneti, i terreni affioranti sono generalmente i più antichi (Permiano o Triassico) nel Sudalpino, mentre sono metamorfici nel Meranese e in Valle Isarco.

Sauvignon 2009 – Alto Adige vs Collio: il risultato delle degustazioni
sono riprese le nostre serate di degustazione, gli ormai famosi Incontri del Lunedì, ma all'insegna della novità, ossia introducendo un nuovo modo di confrontarsi col vino: abbiamo, infatti, pensato di contrapporre decisamente due regioni distinte, concentrandoci sulla diversa interpretazione che due differenti territori danno di un medesimo vitigno; una sorta di confronto tra squadre, quindi, e non più una "singolar tenzone" tra singoli vini. Per sperimentare e verificare la validità di questa sfida, che in futuro estenderemo ad altre zone ed altri vitigni, siamo partiti con due regioni che da un punto di vista stilistico ci offrivano buone garanzie di qualità, vale a dire Alto Adige e Collio, e abbiamo pensato di contrapporle con il più complesso dei vitigni che hanno in comune: il Sauvignon, annata 2009. Abbiamo, cioè, scelto di giocare con vini lavorati in modo molto simile, senza interventi enologici invasivi capaci di modificare sostanzialmente il quadro aromatico del vitigno. In sostanza abbiamo preferito che la contesa effettiva la giocasse il luogo, l'ambiente e naturalmente l'uomo: in una parola la denominazione di "origine".
Il pubblico è stato al gioco, anzi, si è subito appassionato schierandosi chi con l'uno chi con l'altro, ma mettendoci un poco di tifo ed entusiasmo più che di rigore e severità. Mentre si degustavano i dieci vini era già chiaro che il confronto si faceva sempre più interessante, tanto che è proseguito a lungo con un clima caldo ed avvincente.
Il risultato è stato nettissimo con il Collio, che ha largamente battuto il rivale piazzando i suoi vini ai primi tre posti, mentre all'Alto Adige non restava che accontentarsi del quarto e quinto posto. Il gruppo degli inseguitori è, poi, giunto al traguardo con notevole ritardo stilistico dai primi cinque. Non possiamo esimerci dal sottolineare come al primo posto si sia piazzata una nostra vecchia conoscenza, già ampiamente vincente in altre occasioni degustative negli scorsi anni: il sempre sorprendente Collio Sauvignon Ronco delle Mele 2009 di Venica & Venica, autentico campione capace di assestare distacchi micidiali a qualsiasi avversario quando c'è di mezzo il giudizio del pubblico.
Certo, la ponca friulana non ha rivali con il sauvignon, tanto che è un ambiente capace di far "sauvignoneggiare" un po' tutti i vitigni, mentre i detriti dolomitici dell'Alto Adige non fanno che impreziosire e raffinare tutto ciò che gli si coltiva sopra e dentro. Quindi, per dare la doverosa pari all'Alto Adige abbiamo pensato che la prossima partita contro il Collio la si giocherà sul terreno del Pinot Bianco o dello Chardonnay. Ne vedremo delle belle!
G.B.

I Soci Slow Food presenti hanno preferito:
Bita Astori:  Collio Sauvignon Ronco delle Mele 2009 di Venica & Venica, Alto Adige Sauvignon Oyèll della Cantina Laimburg, Collio Sauvignon Segré del Castello di Spessa; Slvio Magni: Collio Sauvignon Ronco delle Mele 2009 di Venica & Venica, Collio Sauvignon di Ronco Blanchis e Alto Adige Sauvignon Oyèll della Cantina Laimburg.

 

0MONTEREGIO DI MASSA MARITTIMA ROSSO

La Doc Monteregio di Massa Marittima è stata riconosciuta con DM del 03.10.1994 successivamente pubblicato sulla GU del 15.10.1994
Una DOC decisamente giovane per una viticoltura che ha comunque lunga tradizione. Ricco di storia è soprattutto il suo territorio, con Massa Marittima e gli altri borghi medievali che le fan corona nella parte settentrionale della Maremma grossetana.
Il territorio del Monteregio comprende l'area delle Colline Metallifere dell'Alta Maremma Grossetana, quindi la parte nord della provincia di Grosseto e precisamente tutto il territorio, esclusi i fondovalle, dei comuni di Massa Marittima e Monterotondo Marittimo e parte dei comuni di Roccastrada, Gavorrano, Castiglione della Pescaia, Scarlino e Follonica
Quest’area vitivinicola si estende in uno scenario ricco di storia e di incantevoli paesaggi, tra “gioielli” Etruschi e Medioevali, con caratteristiche pedoclimatiche ed ambientali particolarmente favorevoli allo sviluppo di una viticoltura di qualità.
È in questo ambiente collinare e pedecollinare che nascono i vini della DOC Monteregio, ben otto tipologie (rosso, rosso riserva, rosato, bianco, vermentino, novello, vin santo e vin santo occhio di pernice)  che rappresentano una realtà composita del mondo vitivinicolo locale e che offrono ai produttori l'occasione di valorizzare tutta una serie di vitigni che da tempo fanno parte del patrimonio vitato grossetano.
Il Monteregio di Massa Marittima Rosso si produce con uve Sangiovese (minimo 80%) ed eventuali altri vitigni a bacca rossa non aromatici (singolarmente nel limite del 10% o congiuntamente non oltre il 20%).

Il Sangiovese
È un vitigno generoso e quasi eccessivamente produttivo, soprattutto in terreni fertili, profondi e freschi, anche se privilegia quelli tendenzialmente siccitosi, dato che non teme la siccità. È mediamente sensibile alla peronospora, più sensibile a oidio e marciume, molto sensibile ad acari, meno a tignole e cicaline, soggetto a mal dell’esca. Teme la botrite, soprattutto nei cloni a grappolo eccessivamente compatto.
Ha foglia di media grandezza, pentagonale, quinquelobata, a volte trilobata; grappolo di grandezza da medio-piccola a grande, di forma conico-piramidale con una o due ali, più o meno compatto; l’acino è di media grandezza, subrotondo a volte quasi ellissoidale, di forma regolare piuttosto uniforme; la buccia è molto pruinosa, di colore nero-violaceo, consistente ma non molto spessa.

I risultati della degustazione

Nel corso dei nostri incontri del lunedì abbiamo sempre preso in considerazione le maggiori denominazioni italiane e la maggior parte dei vitigni internazionali che popolano i nostri vigneti da nord a sud; sono sempre state serate di successo che hanno creato notevole interesse da parte dei degustatori che abitualmente ci seguono in questo percorso; quest'anno, però, abbiamo voluto intraprendere un cammino diverso che ci portasse anche verso quella viticoltura spesso definita marginale o secondaria che raramente sale agli onori della cronaca. Sono quelle denominazioni che si stanno sviluppando in zone ai margini di grandi e famose aree viticole, che spesso ne mutuano gli stilemi tanto da riuscire raramente a far emergere con chiarezza i loro caratteri distintivi e la loro personalità. Tanto meno usano la loro diversità come argomento di vanto, di orgoglio territoriale, di autonoma espressione culturale; e se questo è un limite di quanti producono vino in questi territori o se ne occupano per motivi professionali, figuriamoci cosa ne possono pensare i consumatori, anche quei pochi che abbiano avuto l'occasione di incrociare qualche bottiglia di una di queste denominazioni poco o per nulla famose.
E così ieri sera abbiamo iniziato questo viaggio nelle anse della viticoltura italiana partendo dal Monteregio di Massa Marittima: siamo in quell'angolo di Toscana grossetana che dal mare di Follonica e Castiglione della Pescaia sale verso le colline metallifere, area dal sottosuolo ricco di risorse minerarie già conosciute e sfruttate al tempo degli Etruschi. I suoli sono quindi estremamente policromi, sempre ricchi di arenarie quarzose e siltose come solo in questa zona di Toscana si possono trovare; da un punto di vista viticolo siamo a sud delle famose denominazioni di Bolgheri e Suvereto, a nord di Scansano e ad ovest di Montecucco. La recente nascita della Doc, avvenuta nel 1994, ha voluto fotografare e codificare una viticoltura tradizionalmente legata alla produzione di vini per l'autoconsumo locale, ottenuti con il vitigno che troviamo diffuso ovunque in Toscana, e cioè il Sangiovese. Ma che tipo di vino dà il Sangiovese in questo clima, su questi suoli, in questo ambiente? Certamente non avrà la calda potenza di Montalcino, la solida struttura del Chianti Classico e neppure la grassezza di Scansano. Sono bastati due o tre assaggi per capire che il Monteregio di Massa Marittima è costruito su aromi prevalentemente minerali capaci di trasformare i toni animali del Sangiovese in sapide essenze balsamiche, con mentuccia e liquerizia, che spianano la trama tannica e donano una fragrante e immediata bevibilità.
Tra i vini del 2008 assaggiati ieri sera il pubblico ha posto sul gradino più alto il Monteregio di Massa Marittima Sassabruna della Tenuta Rocca di Montemassi e alle piazze d'onore il Monteregio di Massa Marittima dell' Azienda Valentini ed il il Monteregio di Massa Marittima Sangiovese Poggio Maestro di MaremmAlta.
Come sempre i dettagli della serata li leggerete sul prossimo numero de Il Consenso.
(G.B.)

 

LACRIMA DI MORRO D'ALBA

Conosciuto sin da tempi remoti, sembra infatti che se ne parli in alcuni scritti risalenti all'epoca dell'antica Roma, troviamo la prima citazione storica grazie a Federico Barbarossa il quale, durante l’assedio di Ancona, nel 1167 scelse il Castello di Morro d’Alba come dimora e riparo: gli abitanti furono costretti a cedere all’imperatore le cose più buone e prelibate, tra le quali il famoso succo d’uva di Morro d’Alba.
Questo vino ed il suo vitigno omonimo, che rischiavano la sparizione a causa di una dissennata "politica degli espianti", sono stati salvati da alcuni vignaioli lungimiranti che ne hanno ottenuto la doc nel 1985. Soltanto agli inizi degli anni ottanta, infatti, alcuni produttori, convinti dell'opportunità di far conoscere il prodotto e di valorizzarlo sono riusciti a ridare nuovo lustro a questo vitigno. Passo importante è stato quello di cambiare gran parte del sistema di impianto e di coltivazione: si è passati a un sistema di allevamento più moderno come quello a Guyot oppure al più semplice cordone speronato abbandonando definitivamente la pratica di “maritarlo” ad un tutore vivo e cioè ad un albero, come l'olmo e l'acero.
La denominazione prevede una composizione di almeno l’85% di vitigno lacrima con l’aggiunta di Montepulciano e/o Verdicchio nella misura del 15% massimo.
La zona di produzione ricade nella Provincia di Ancona e comprende l'intero territorio comunale di Morro d'Alba, Monte San Vito, San Marcello, Belvedere Ostrense, Ostra e Senigallia, con l'esclusione dei fondi valle e dei versanti delle colline del Comune di Senigallia prospicenti il mare.

L’uva Lacrima predilige la coltivazione in terreni collinari argillosi/sabbiosi, ricchi di minerali molto permeabili e profondi e necessita di buona insolazione, escursione termica favorevole ed un’adeguata ventilazione in quanto ha scarsa resistenza alle avversità climatiche.
Il grappolo è di media grandezza, di forma piramidale, provvista di ala, spargolo. L’acino è medio, sferico, con buccia spessa e consistente di colore nero-blu.
Il Lacrima è un vitigno di elevata vigoria, con produttività spesso altalenante; è piuttosto sensibile nei confronti di botrite e ragnetti mentre non si riscontrano intolleranze verso attacchi di altre crittogame ed insetti.

Il nome Lacrima deriva dal fatto che la buccia dell'uva, quando arriva al punto di maturazione, si fende, lasciando gocciolare, “lacrimare”, il succo contenuto. La buccia dell'uva Lacrima ha tuttavia uno spessore notevole, il che, in fase di macerazione, fa sì che la cessione di antociani, tannini e sostanze coloranti, sia enorme.
Il vitigno Lacrima è estremamente versatile: si adatta bene alla vinificazione classica per la produzione di normali vini da pasto e si presta molto bene per la vinificazione in passito.
Vengono prodotte tre tipologie di vino:
– base (vendita consentita dopo il 15 dicembre dell'anno di vendemmia)
– superiore (gradazione minima 12° – vendita consentita dopo il 1 settembre dell'anno successivo alla vendemmia)
– passito (gradazione minima 15° – vendita consentita dopo il 1 dicembre dell'anno successivo alla vendemmia)
La produzione massima per ettaro è di 130 q.li per il prodotto base e per il passito; 100 q.li per il superiore, mentre la resa massima dell'uva in vino è del 70% per la base e il superiore; 45% per il passito.

I risultati della degustazione

Siamo profondamente convinti che con le rigogliose risorse della viticoltura italiana non sia possibile annoiarsi; l'Italia tutta, percorsa in lungo e in largo è prodiga di sorprese che riescono sempre a stupirci per l'originalità dei profumi, la ricchezza di sensazioni piacevoli e mai scontate, difficilmente replicabili in altri paesi. È davvero nostro vanto e motivo di orgoglio sapere che ogni regione ha saputo conservare gelosamente qualche perla con cui stupire i nostri sensi e regalarci qualche emozione.
Siamo nelle Marche, una regione che con il Verdicchio, a Jesi e a Matelica, produce grandi vini bianchi, che ha saputo valorizzare i suoi vigneti di Sangiovese come pure di Montepulciano; pochi sanno che oltre a queste celebrità custodisce gelosamente anche un altro vino, il Lacrima di Morro d'Alba. Il nome è certamente affascinante ma anche foriero di equivoci perché al nome del vitigno, Lacrima, unisce il nome di un comune che sembrerebbe una frazione del celebre comune di Langa ma che è invece adagiato sulle dolci colline nell'entroterra di Senigallia e prende il nome da moro come confine e alba come colle.
L'antica storia del vitigno Lacrima sembrava doversi interrompere alla fine degli anni Settanta, quando ne erano rimaste poche decine di ceppi ancora allevati ad alberata; poi con la caparbietà di qualche vignaiolo lo si è moltiplicato, allevato a cordone speronato, ben vinificato e nel 1985 ha ottenuto la sua DOC. Timidamente si è mostrato al pubblico raccogliendo buoni consensi, ma era ancora prodotto in piccolissime quantità che lo rendevano scarsamente visibile. Ora si è arrivati a produrne circa 10.000 ettolitri, la sua qualità è cresciuta e lunedì sera abbiamo degustato una dozzina di campioni del 2008, metà dei quali della categoria Superiore che prevede un anno di affinamento. La sala si è presto saturata di profumi di rosa e il pubblico si è lasciato trasportare dalla fragrante dolcezza del frutto e dalle calde spezie, con il finissimo tannino che dava eleganti consistenza e persistenza. Su tutti l'ha spuntata il Lacrima di Morro d'Alba Superiore 2008 di Stefano Mancinelli nel quale si sono condensate e concentrate le proprietà di un vino inusuale e seducente. Da rimarcare anche gli ottimi Lacrima di Morro d'Alba Superiore Luigino Vecchie Vigne di Piergiovanni Giusti e il Lacrima di Morro d'Alba Superiore Guardengo di Mario Lucchetti.
G.B.

I soci presenti hanno preferito nell'ordine:
Bita Astori: Lacrima di Morro d'Alba Superiore di Stefano Mancinelli, Lacrima di Morro d'Alba Superiore Guardengo di Mario Lucchetti e Lacrima di Morro d'Alba Sensazioni di frutto di Stefano Mancinelli;
Silvio Magni: Lacrima di Morro d'Alba Superiore Guardengo di Mario Lucchetti, Lacrima di Morro d'Alba Superiore di Stefano Mancinelli e Lacrima di Morro d'Alba Sensazioni di frutto di Stefano Mancinelli.

 

LE ECCELLENZE DELLA GUIDA I VINI DI VERONELLI 2011: LE ISOLE

LA SARDEGNA
L'isola è rimasta per lungo tempo emarginata dalla storia civile ed economica dell'Italia peninsulare, e questa realtà si specchia fedelmente nell'origine delle uve locali più importanti e diffuse: Carignano, Cannonau, Bovale e Vermentino sono infatti vitigni strettamente imparentati con analoghe varietà originarie della costa meridionale di Spagna e Francia. La vite non è il tipo di coltivazione più esteso in Sardegna, ed ha anzi conosciuto un certo arretramento negli ultimi anni: i vigneti isolani ammontano a circa 25.000 ha, per una produzione di vino totale che non supera il milione di ettolitri (ma solo dieci anni fa gli ettari piantati a vigneto erano circa 80.000).
I vitigni più diffusi sono il Vermentino e il Nuragus per i bianchi, il Cannonau e il Carignano per i rossi: rese massime per ettaro ancora troppo alte impediscono di apprezzare e conoscere fino in fondo le reali potenzialità di questi vitigni, per quanto alcune rare ed ottime bottiglie di Vermentino di Gallura, Nuragus di Cagliari, Carignano del Sulcis e Cannonau di Oliena già testimonino una qualità potenziale piuttosto elevata. Un elemento di confusione è dato inoltre dal fatto che alcuni tra i vini sopra citati sono disponibili in molte versioni dal diverso grado alcolico – Secco, Amabile, Dolce, Liquoroso e Liquoroso Secco.
Una percentuale non trascurabile del totale di vino prodotto in Sardegna è a doc (circa il 9% del totale, ben superiore alla media delle altre regioni del Mezzogiorno), ed esiste anche un vino a docg (il Vermentino di Gallura). Sempre più diffusi sono gli assemblaggi tra uve indigene e varietà internazionali (specialmente Chardonnay, Pinot Bianco, Cabernet, Merlot) o italiane (Montepulciano, Sangiovese).
Grande è la vocazione dell'isola per la produzione di vini da dessert di forte carattere, sebbene i due esempi migliori – la Vernaccia di Oristano e la Malvasia di Bosa – siano ormai onorati da un numero molto ristretto di viticoltori.
Il clima sardo è tendenzialmente mite. Nelle zone costiere l’inverno è tiepido, mentre abbastanza rigido sulle montagne più alte. Il periodo estivo è caldo e secco. Le piogge sono scarse e si concentrano all’inizio della primavera e alla fine dell’autunno. Nel periodo invernale l’isola è colpita dal vento maestrale.
Il 50% del territorio sardo è di natura granitica, per il resto ci sono calcari e materiali sedimentari, soprattutto sulle fasce costiere.
DOCG Vermentino di Gallura
DOC Alghero, Arborea, Campidano di Terralba, Cannonau di Sardegna, Carignano del Sulcis, Girò di Cagliari, Malvasia di Bosa, Malvasia di Cagliari, Mandrolisai, Monica di Cagliari, Monica di Sardegna, Moscato di Cagliari, Moscato di Sardegna, Moscato di Sorso-Sennori, Nasco di Cagliari, Nuragus di Cagliari, Sardegna Semidano, Vermentino di Sardegna, Vernaccia di Oristano
IGT :Barbagia; Colli del Limbara, Isola dei Nuraghi, Marmilla; Nurra Ogliastra, Parteolla, Planargia, Provincia di Nuoro, Romangia, Sibiola, Tharros, Trexenta, Valle del Tirso, Valli di Porto Pino.

LA SICILIA
Con 120.000 ettari di vigneto e meno di 6 milioni di ettolitri di vino prodotti annualmente la Sicilia ha perso da anni il primato produttivo che ha detenuto per quasi tutto il secolo scorso.
A fronte di fattori pedologici, topografici e mesoclimatici che rendono la Sicilia ambiente ideale per la coltivazione della vite, il fattore umano, qui come in altre regioni del Sud, non ha assecondato in passato la nascita di una viticoltura di qualità. I mosti siciliani, naturalmente ricchi di colore e alti in grado alcolico venivano frequentemente esportati in Francia e nelle altre regioni italiane durante gli anni Sessanta, Settanta e Ottanta per irrobustire i locali vini da tavola. Inoltre la resa massima di uva per ettaro fu costantemente in aumento fino agli anni Ottanta e ncora oggi una significativa quantità di uva siciliana è utilizzata per la produzione di mosti concentrati rettificati (MCR).
Nonostante questa storia passata non troppo edificante, va riconosciuto lo sforzo fatto da diverse aziende siciliane lungo gli anni Ottanta e da numerose aziende provenienti da tutta Italia negli anni Novanta per rilanciare la viticoltura dell'isola. La quota di vini a denominazione è ancora molto
bassa (meno del 2%) e risente in parte delle alterne fortune della denominazione Marsala (di gran lunga la più grande della regione). Infatti è doveroso sottolineare che a fronte di 6-7 milioni di ettolitri di vino prodotti in Sicilia annualmente, solo 150.000 sono vini a denominazione di origine e di questi ben 78.000 appartengono alla DOC Marsala.
Una divisione tradizionale delle aree vitivinicole della Sicilia identifica nella parte a ovest dell'isola la zona votata ai vini bianchi, e nella parte a est la zona di origine dei vini rossi più importanti e conosciuti. In Sicilia non mancano certo varietà di uva locale dalla spiccata personalità, sia a bacca bianca (Inzolia, Catarratto e Grillo) che a bacca nera (Nero d'Avola, Nerello mascalese e Frappato) anche se sempre più diffusi risultano essere gli assemblaggi tra le uve indigene e le varietà internazionali: buoni risultati si ottengono infatti introducendo il Viognier per le uve bianche ed il Syrah per le uve rosse, oltre, ovviamente, agli onnipresenti Chardonnay, Cabernet e Merlot.
Da sottolineare come in questo momento sia l’Etna la zona più dinamica con l’arrivo di molte nuove aziende e la vera riscoperta di una viticoltura di alta quota sulle pendici a nord est del vulcano.
Non mancano anche i positivi effetti dati dalle altitudini che causano climi molto diversificati: in Sicilia si passa da climi estremamente caldi come quelli ragusani e messinesi a livello del mare, a climi temperarti della Valle del Belice a 5/600 metri s.l.m., fino ai climi freschi delle pendici dell’Etna dove i vigneti arrivano fino a mille metri di altitudine. L’Appenino siculo è formato da rilievi di differente natura, calcarei o arenaio-argillosi o, ancora, scisto-quarzosi.
Dei molti vini passiti e liquorosi che nascono ancora oggi in Sicilia quelli in grado di rinverdire l'antica e gloriosa fama dei vini isolani da meditazione sembrano essere il Moscato Passito di Pantelleria – denominazione animata da un pugno di seri produttori – e la Malvasia delle Lipari.
Dopo avere attraversato un passato decisamente buio lo stesso Marsala è oggi riproposto a buoni
livelli da alcune serie aziende della provincia trapanese.
DOCG:  Cerasuolo di Vittoria
DOC: Alcamo; Contea di Sclafani; Contessa Entellina; Delia Nivolelli; Eloro; Erice; Etna; Faro; Malvasia delle Lipari; Mamertino di Milazzo; Marsala; Menfi; Monreale; Moscato di Noto; Moscato di Pantelleria , Passito di Pantelleria e Pantelleria; Moscato di Siracusa; Riesi; Salaparuta; Sambuca di Sicilia; Santa Margherita di Belice; Sciacca; Vittoria
IGT:  Camarro; Fontanarossa di Cerda; Salemi; Salina; Sicilia; Valle Belice.

Risultato della Degustazione
L'annuale lavoro di redazione della Guida Veronelli consente ai curatori di affrontare una panoramica approfondita ed esaustiva pressoché dell'intera produzione vinicola di qualità del nostro Paese. Ciò permette di analizzare con attenzione le dinamiche in atto, cogliendo quali zone si stiano muovendo e progredendo, e quali, invece, appaiano più statiche o un poco in affanno. In occasione della recente uscita della Guida 2011, il Seminario Veronelli ha, quindi, pensato di dedicare tre serate dei suoi consueti Incontri del lunedì alle "Eccellenze" scovate quest'anno da Gigi Brozzoni e Daniel Thomases in giro per l'Italia, così da offrire anche al nostro pubblico l'opportunità di capire che aria tira, ovviamente attraverso la degustazione dei campioni risultati più rappresentativi delle diverse zone per personalità e qualità. Lunedì sera, con una sala davvero gremita, siamo partiti dalle Eccellenze delle isole, ovvero Sardegna e Sicilia. Si tratta di due regioni a lungo rimaste ai margini della viticoltura che conta, la prima per una sorta di isolamento che ancora in parte perdura, la seconda poiché prevalentemente relegata, fino a pochi decenni fa, al ruolo di fornitrice di vini da taglio e di mosti atti a rafforzare le più "magre" produzioni del nord. Ora entrambe mostrano, però, maggior dinamismo, muovendosi alla riscoperta di aree e vitigni più periferici e meno conosciuti. Accanto agli ormai affermati Cannonau, Carignano e Vermentino, infatti, alcuni produttori sardi si stanno cimentando con successo con uve più rare e particolari, come il rosso cagnulari ed il bianco nasco, mentre in Sicilia, dopo che il fenomeno Nero d'Avola, che ha trainato con forza nello scorso decennio tutto il comparto qualitativo dell'isola, si è un poco appannato, si cominciano ad esplorare con maggior attenzione zone molto interessanti ed originali, tra le quali spicca il comparto etneo che sta riservando graditissime sorprese; ed anche in questa occasione, infatti, proprio i vini provenienti dall'Etna (ed anche dall'area messinese, con il sempre ottimo Faro Palari) sembrano aver intrigato maggiormente i nostri degustatori. Per ragioni di spazio ci limitiamo, in questa sede, ad indicare l'elenco dei vini assaggiati (affiancati dal punteggio ricevuto sulla Guida Veronelli 2011), rimandandovi al prossimo numero de Il Consenso per le puntuali note di degustazione.

Sardegna:
Iselis Bianco Isola dei Nuraghi 2009
– Argiolas (91 – G.B.)
Carignano del Sulcis Superiore Terre Brune 2006 – Cantina Santadi (93 – G.B./D.T.)
Gerione Isola dei Nuraghi Rosso 2007 – Feudi della Medusa (94 – G.B.)
Turriga Isola dei Nuraghi 2005 – Argiolas (94 – G.B.)

Sicilia:
Faro Palari 2008
– Palari (93 – G.B.)
Lamorémio Rosso Sicilia 2006 – Benanti (93 – G.B.)
Etna Rosso Prephylloxera Le Vigne di Don Peppino 2008 – Tenuta Terre Nere (98 – D.T.)
Contrada Porcaria Sicilia Rosso 2008 – Passopisciaro (97 e Sole di Veronelli – G.B.)
Cielo d'Alcamo Vendemmia Tardiva Sicilia 2008 – Tenute Rapitalà (93 – G.B./D.T.)

L'appuntamento è, ora, per i prossimi 22 novembre e 6 dicembre, quando assaggeremo rispettivamente le Eccellenze del Piemonte e del Centro Italia; naturalmente sempre seguendo i giudizi espressi dalla Guida Oro I Vini di Veronelli 2011.
M.M.
 

L PIEMONTE

La coltivazione sistematica della vite è probabilmente stata introdotta via Liguria da mercanti Greci nel quarto-quinto secolo a.C. ma è stata la colonizzazione Romana nel secondo secolo a.C. che ha dato maggiore sviluppo alla viticoltura Piemontese.
Nel ‘Naturalis Historia’ di Plinio il Vecchio (d.C. 23 – 79) viene citata una varietà chiamata ‘allobrogica’ coltivata nel nord del Piemonte e Plinio la descrive come frutta resistente al freddo, di colore intenso e che matura abbastanza tardi nell’anno. I vini erano considerati di alta qualità ed esportati anche a Roma – indubbiamente gli alti livelli di acido nel Nebbiolo coltivato nel nord produceva un vino che durava molto bene.
L’inizio della decadenza Romana segnava il declino della viticoltura piemontese: le tasse sul vino e sui vigneti erano alte e, poco per poco, la campagna diventava spopolata.
Tra la caduta dell’Impero Romano e l’arrivo di Carlo Magno e i Franchi nel 9° secolo, le colline delle Langhe e del Monferrato sono state devastate da una serie di assalti da parte di popolazioni come Visigoti e Borgogni. Durante questa cosiddetta Età Buia, i monasteri erano il rifugio della viticoltura. La crescita del cristianesimo e l’importanza del vino come sacramento hanno fatto in modo che i vigneti non si estinguessero.
Nel periodo medioevale l’evoluzione e la documentazione della viticoltura sono più in evidenza. Documenti sulla storia Piemontese ricordano i dati di produzione e del lavoro richiesto nella coltivazione dell’uva ‘nibiol’ a Rivoli nel 1268. Varietà aromatiche come Malvasia e Moscato sono state introdotte e ha iniziato il nuovo sistema di allevamento a potatura bassa, che gradualmente sostituisce quello alto dei Romani.
Entro la metà del 18° secolo il modello di viticoltura in evidenza oggi iniziava ad apparire nelle Langhe e nel Monferrato. Fino ad allora era stato utilizzato un sistema policolturale dove sullo stesso lotto crescevano viti ed altre coltivazioni. Le viti venivano coltivate in pianura; senza l’esigenza di ottenere né qualità né quantità, e vi era poco incentivo per trasformare i versanti boschivi più impegnativi in vigneti. Sotto la libertà commerciale creata dall’unificato Ducato di Savoia, però, la promessa di mercati nuovi ed esigenti come Torino, ha stimolato la coltivazione di vigneti sui versanti migliori; quelli esposti a sud. Sempre più spesso le viti venivano piantate in file orizzontali o in terrazze (piuttosto che in file verticali, come prima) che erano più facili da coltivare con i buoi.
All’inizio del 19° secolo compaiono i primi tentativi di vinificare Nebbiolo e Barbera come vini secchi. Tra il 1832 e il 1849 il giovane Conte Camillo di Cavour, che contemporaneamente diventava il capo del governo Piemontese, ha ricercato ed implementato nuovi sistemi di agricoltura sulle fattorie intorno al castello familiare di Grinzane dando sprono ai viticoltori locali. Nel 1840 il Re Carlo Alberto ha fornito il suo contributo alla modernizzazione del vino edificando nuove attrezzature di produzione nella sua tenuta di Verduno, sotto il controllo del Generale Staglieno.
Staglieno fece importanti innovazioni in cantina: introdusse la fermentazione a vasca chiusa e migliorò l’uso dell’anidride solforosa. Agli albori del secolo il centro di produzione di maggiore importanza per il Piemonte era la città di Alba.
La fondazione della Scuola d’Enologia di Alba nel 1881 ha soddisfatto alcune delle esigenze di un’industria vinicola in crescita rapida perché ha provveduto ad un collegamento con altri centri vitivinicoli Europei dove erano già stati stabiliti sistemi razionali di coltivazione. La competenza dei tecnici della Scuola di Enologia era molto ricercata soprattutto con l’arrivo della tripla peste dall’America: prima l’oidio nel 1850, poi la peronospora e, infine, la fillossera. L’influenza della scuola aiutò anche a stabilire il sistema di allevamento Guyot come norma del Piemonte.

Zone Viticole Piemontesi:
Colline Novaresi e Vercellesi
: zona pedemontana con terreno particolarmente acido, povero di calcare e ricco di ferro.
L’esposizione, grazie alle caratteristiche terrazze, il clima e il terreno rendono questa zona particolarmente favorevole alla coltivazione del Nebbiolo, che viene nominato “Spanna”. Altri vitigni molto diffusi in questa zona sono: barbera, vespolina, croatina, bonarda ed erbaluce.
Nella provincia di Vercelli, a ovest del fiume Sesia, si trova la zona di produzione di Gattinara, a base di nebbiolo, Lessona e Bramaterra.
In provincia di Novara, a est del fiume Sesia, si trova la zona di produzione di Ghemme, Boca, Sizzano e Fara
Il sistema di allevamento più diffuso, soprattutto per gli impianti moderni è la contro spalliera che convive insieme ai sistemi tradizionali quali maggiolino e pergola.
Canavese: questa zona comprende diversi comuni della provincia di Torino e alcuni delle province di Biella e Vercelli. Tuttavia è importante segnalare la zona di Carema (comune), che confina con la Valle D’Aosta, dove vengono prodotti vini interessanti a base di nebbiolo (detto picoutaner) e bianchi a base di erbaluce. Si tratta rispettivamente dei vini nominati Carema e Erbaluce di Caluso. Il primo è un vino storico che allietava, nel Cinquecento, le mense dei duchi di Savoia.
Colline Torinesi: sono principalmente tre le sotto zone di questo territorio: il chirese dove vengono coltivati soprattutto freisa e malvasia. Il pinerolese e la Val di Susa dove vengono coltivati i vitigni freisa, barbera e dolcetto.
Il Monferrato si divide in tre sotto zone: l’Astigiano che comprende i comuni in provincia di Asti e dove abbiamo il maggiore contributo produttivo del Piemonte. Il Casalese, zona che si sviluppa intorno alla città di Casale Monferrato e arriva molto vicino agli appennini e l’Alto Monferrato, a ridosso degli appennini, comprende Acqui Terme, Ovada e Gavi.
Il Monferrato è una zona molto vasta dal clima continentale con forti escursioni termiche tra estate e inverno. La piovosità è molto scarsa e il terreno presenta caratteristiche molto variabili: si va dalla sabbia al limo ai terreni argillosi. Per questo si coltivano vitigni con caratteristiche diverse. Si passa infatti da quelli a bacca bianca come il Cortese a quelli a bacca rossa quali Grignolino, Dolcetto, Freisa e Barbera e quelli aromatici come brachetto, malvasie e moscato.
I vini prodotti sono diversi ma quello che sicuramente non si può dimenticare è l’Asti Spumante ottenuto da uve Moscato. La zona di produzione che comprende un centinaio di comuni nelle provincie di Asti, Alessandria e Cuneo, ha un’estensione di 10.000 ha. Questo vino è il secondo in Italia, dopo il Chianti, per quantità prodotta e si tratta di una perla enologica che raggiunge moltissimi mercati esteri e conta 80 milioni di bottiglie prodotte.
Dal vitigno Moscato, all’interno della piccolissima zona di Loazzolo, DOC dal 1992, si produce l’omonimo vino dalle piacevolissime sensazioni tattili e da un bouchet indimenticabile. Il disciplinare, in questa piccola zona impone delle regole molto rigide in termini di rese e per la tipologia di terreni atti alla produzione con pendenze che devono superare il 20% e con esposizioni sud o sud-ovest.
Colline Tortonesi: zona in provincia di Alessandria, attraversata dal fiume Scrivia. Comprende una trentina di comuni tra il Monferrato e l’Oltrepò Pavese. In generale il terreno è argilloso e molto compatto. La piovosità è la più scarsa dell’ intera regione. I principali vitigni coltivati sono il barbera e il cortese. Sicuramente bisogna ricordare il Gavi o Cortese di Gavi, vino ottenuto da quest’ultimo vitigno molto apprezzato anche oltre i confini Italiani. In questo caso il terreno di produzione è tufaceo e il clima è influenzato dall’aria marina che determina una acidità naturale e aromi tipici nel vino.
Roero: zona che si estende lungo la sponda a Nord del fiume Tanaro e comprende una ventina di comuni in provincia di Cuneo oltre al comune di Cisterna d’Asti. I vitigni più coltivati sono arneis, nebbiolo e barbera. La particolarità di questo territorio deriva dal fatto che il vino ottenuto dal vitigno Nebbiolo non presenta particolari doti di struttura e longevità, come siamo abituati a pensare, ma ha caratteristiche completamente diverse. Il vino, infatti, risulta molto beverino e non molto strutturato né tannico, ma caldo e dotato di una piacevole morbidezza.
Langhe: questa zona è sicuramente quella più conosciuta di tutto il contesto nazionale. Si estende lungo la sponda destra del fiume Tanaro, in provincia di Cuneo. Territorio collinoso dove il vitigno Nebbiolo trova la sua massima espressione. Il terreno è principalmente di tipo calcareo bianco e di tipo morenico e di natura sub-acida nella bassa langa.
Il clima è prevalentemente secco e questo è la garanzia di maggiore concentrazione zuccherina nell’acino ed una conseguente produzione di qualità prestigiosa. Oltre al Nebbiolo nelle sottospecie lampia, michet e rosé, che senz’altro rappresenta il vitigno maggiormente coltivato in queste zone, possiamo trovare altri vitigni quali: dolcetto, freisa, arneis, favorita, moscato e chardonnay.
I vini, ottenuti dal vitigno Nebbiolo, che sicuramente hanno un nome prestigioso in tutto il mondo e che si contraddistinguono soprattutto per la grande longevità sono il Barolo e Barbaresco.
Un altro vino che si deve ricordare, soprattutto per le caratteristiche che ottiene in queste zone, è il Barbera, particolarmente apprezzato per la forte struttura che comporta una maggiore predisposizione all’affinamento.
Il Piemonte è una grande regione vitivinicola, non tanto per la quantità prodotta (circa 3 milioni di hl) ma per la percentuale di vini DOC e DOCG che va oltre il 45%, contro la media italiana che si attesta intorno al 15%.

I risultati della degustazione

L'affascinante viaggio attorno alle eccellenze enologiche italiane, che compiremo nel corso di quest'inverno, ieri sera ha fatto tappa in Piemonte, una delle regioni vitivinicole più importanti. Non si tratta, però, di una regione altamente produttiva; sfiora, infatti, i tre milioni di ettolitri di vino, che rappresentano solo il 6-7% sulla produzione nazionale, mentre la sua alta percentuale di vino Doc, superiore al 45%, la pone al vertice della classifica regionale alle spalle del solo Alto Adige, anche se per ottenere questo risultato ha dovuto bandire le Igt. Questo schematismo un po' rigido e manicheo (o Doc o da tavola) potrebbe far pensare ad una regione lenta e statica, poco incline alla ricerca e al cambiamento; il Piemonte, invece, lascia trasparire continuamente una grande voglia di cambiamento, di ribaltare le vecchie credenze, di rimettere in gioco le tradizioni stesse reinterpretandole con rigore, ma anche con creatività. E in una regione dove abbondano grandi e famose uve rosse, i vignaioli piemontesi non si rassegnano e continuano a domandarsi quali siano i limiti di tante altre varietà considerate minori, quali siano le tecniche capaci di apportare miglioramenti alle loro produzioni, pur rimanendo concettualmente tradizionalisti. Ma forse è il tessuto sociale della viticoltura piemontese, fatta di tante piccole aziende familiari, che favorisce dinamismo, curiosità e interesse. I figli si fanno studiare all'enologica di Alba, le figlie si laureano in lingue o comunicazione e presto porteranno in azienda il loro sapere, le loro esperienze innovative e le loro ambizioni. Così le Barbera sono sempre più buone ed eleganti, i Freisa si scoprono poco rustici e molto vigorosi, le Doc dell'Alto Piemonte sembrano rinascere dalle loro ceneri, i passiti hanno ritrovato freschezza e fragranza, i Barbaresco e i Barolo continuano a superare superbamente le sconnessioni climatiche e, sempre loro, un tempo divisi tra tradizionalisti ed innovatori, ora appaiono così mescolati, fusi, amalgamati da non riuscire più a distinguere gli uni dagli altri. Ma il tutto senza aver dato l'idea di una rivoluzione, perché tutto è successo in famiglia, nella propria casa, nella propria cantina, nei propri vigneti. Nessun elemento esterno è intervenuto a turbare le consuetudini e la serenità della famiglia.
Dispiace solo vedere escluso da questo fronte il Roero, che già qualche mese fa avevo spinto a trovare un modo non imitativo per esprimere le potenzialità del suo territorio; avevo parlato di vino più semplice e facile, più giovane e dinamico, capace di sedurre i consumatori più giovani e meno agiati e avevo chiesto che si facesse presto, prima che ad altri venisse la stessa idea. E l'idea, alla fine, è venuta proprio ad un grande barolista, ad un bravo vignaiolo che non aveva certo bisogno di idee nuove per far crescere la sua azienda: è Domenico Clerico, che con il suo Capisme-e (capiscimi) ha spiazzato tutti, ha bruciato tutti alla partenza più che all'arrivo. A lui il nostro più sentito plauso. A tutti gli altri produttori che ci hanno inviato le loro eccellenze va, invece, il nostro augurio di continua e crescente prosperità. Augurio che non mancherà a nessun vignaiolo che con pazienza e fatica coltiva la sua vigna anche quando il cielo ce la inzuppa e ci strapperebbe dalla bocca un vaffan.
G.B.

Ecco con quali vini abbiamo parlato di Piemonte:
Barbera d'Asti Ai Suma 2008 Braida di Giacomo Bologna – Rocchetta Tanaro (At)
Barbera d'Asti Superiore Nizza Riserva della Famiglia 2004 Coppo – Canelli (At)
Langhe Freisa Kyé 2007 G.D. Vajra – Barolo (Cn)
Monferrato Rosso Pin 2008 La Spinetta – Castagnole Lanze (At)
Gattinara Riserva 2005 Travaglini Giancarlo – Gattinara (Vc)
Langhe Nebbiolo Capisme-e 2009 Clerico Domenico – Monforte d'Alba (Cn)
Barbaresco Vigneto Starderi Vursù 2007 La Spinetta – Castagnole Lanze (At)
Barolo Rocche 2006 Vietti – Castiglione Falletto (Cn)
Barolo Riserva Vigna Rionda 2004 Massolino – Vigna Rionda – Serralunga d'Alba (Cn)
Mesicaseu 2009 L'Armangia – Canelli (At)

 

IL CENTRO

EMILIA ROMAGNA
La storia della vite e del vino in Emilia-Romagna ha radici che si perdono negli albori della civiltà e tutto ha inizio, presumibilmente, con l'uva più celebre dell'Emilia e dalla quale si produce uno dei vini italiani più famosi nel mondo: il Lambrusco. Quest'uva selvatica era nota già ai tempi di Virgilio, e anche Plinio il Vecchio la cita nella sua Naturalis Historia. In Emilia-Romagna la produzione di vino riguarda l'intero territorio regionale, dai confini occidentali fino all'estremità orientale della costa del mare Adriatico. Nonostante l'enologia regionale sia orientata alla produzione di vini da uve autoctone, qui la presenza di varietà “internazionali” è piuttosto rilevante, utilizzate sia in purezza, sia miscelate con le varietà locali.
L'enologia dell'Emilia è tradizionalmente legata alla produzione di vini frizzanti, prevalentemente dalle diverse varietà di Lambrusco. Nella parte orientale della regione – la Romagna – la produzione è prevalentemente dedita ai vini secchi e dolci, sia bianchi, principalmente con le uve Albana, Pignoletto, Trebbiano Romagnolo e Pagadebit (Bombino Bianco), sia rossi, principalmente da uve Sangiovese.
Clima: subcontinentale.
Terreno: argillosi,arenacei,sabbiosi.
DOCG:  Albana di Romagna
DOC: Bosco Eliceo; Cagnina di Romagna; Colli Bolognesi; Colli Bolognesi Classico Pignoletto; Colli di Faenza; Colli d’Imola; Colli di Parma; Colli di Rimini; Colli di Scandiano e di Canossa; Colli Piacentini; Colli Romagna Centrale; Lambrusco di Sorbara; Lambrusco Grasparossa di Castelvetro; Lambrusco Salamino di Santa Croce; Pagadebit di Romagna; Trebbiano di Romagna.
IGT: Bianco di Castelfranco Emilia, Emilia, Fortana del Taro, Forlì, Modena, Ravenna

ABRUZZO
Presente da secoli nella Valle Peligna, in provincia dell'Aquila, la viticoltura abruzzese si è sviluppata soprattutto negli ultimi 40-50 anni: è pertanto una viticoltura giovane, specializzata, molto razionale, che ha via via abbandonato le aree più difficili per ridistribuirsi in quelle più vocate della collina litoranea.
Le aree produttive si concentrano per la quasi totalità nella zona collinare: in particolare, nella provincia di Chieti ricade oltre il 75% del territorio vitato, seguono Pescara e Teramo con circa il 10% cadauna ed infine L'Aquila con meno del 4%.
La forma di allevamento maggiormente diffusa in Abruzzo è la pergola abruzzese che rappresenta oltre l'80% del vigneto regionale mentre nei nuovi impianti e reimpianti prevale nella maggior parte dei casi la forma a filare (cordone speronato, cordone libero, gdc).
Tra i vitigni più diffusi troviamo il Montepulciano, con un trend in continua crescita; seguono i Trebbiani ed una serie di vitigni tra i quali Passerina, Pecorino, Cococciola e Sangiovese.
Clima: mite, continentale.
Terreno: calcare, arenarie, quarzo-micacee.
DOCG: Montepulciano d’ Abruzzo Colline Teramane
DOC: Controguerra; Montepulciano d’ Abruzzo; Trebbiano d’ Abruzzo.
IGT: Alto Tirino, Colli Aprutini, Colli del Sangro, Colline Frentane, Colline Pescaresi, Colline Teatine del Vastese o Histonium,Terre di Chieti, Valle Peligna.

LAZIO
Anche nel Lazio il legame con la vite e il vino trova origini in tempi molto remoti. La sua diffusione risale almeno agli Etruschi, che si sa per certo la coltivarono nel viterbese. Un grande impatto sulle caratteristiche e sull'espansione della viticoltura nel territorio però, prese senz'altro corpo ai tempi degli antichi romani, con l'elevazione di Roma a capitale imperiale.
Sui colli vulcanici dei Castelli Romani, la vite trovava il suo habitat ideale ed è ricordata nei loro carmi dai poeti Tibullo, Orazio, Catullo e nella Naturalis Historia di Plinio il Vecchio.
Dal punto di vista viticolo, i vitigni a bacca bianca sono prevalenti sia per numero che per estensione dei vigneti. Oltre al Trebbiano troviamo la Malvasia Bianca di Candia e quella del Lazio, il Bellone, il Bombino, il Cacchione, il Grechetto ed il Moscato di Terracina. Tra le uve a bacca rossa possiamo ricordare il Cesanese, il Ciliegiolo, il Nero Buono, il Sangiovese ed il Montepulciano.
Clima: continentale, mediterraneo.
Terreno: calcarei,calcarei-arenacei, calcarei-argillosi, calcarei-sabbiosi.
DOCG: Cesanese del Piglio
DOC: Aleatico di Gradoli; Aprilia; Atina; Bianco Capena; Castelli romani; Cerveteri; Cesanese del Piglio; Cesanese di Affile; Cesanese di Olevano; Circeo; Colli Albani; Colli della Sabina; Colli Etruschi Viterbesi; Colli Lanuvini; Cori; Est! Est! Est! Di Montefiascone; Frascati; Genezzano; Marino; Montecompatri-Colonna; Moscato di Terracina; Nettuno; Orvieto; Tarquinia; Velletri; Vignanello; Zagarolo.
IGT:  Civitella d’Agliano, Colli Cimini, Frusinate, Lazio.

UMBRIA
L'enologia umbra affonda le sue radici nell'antichità dei tempi degli Etruschi, popolo che si stabilì nella parte occidentale della regione più di 3.000 anni fa.
Il prestigio dei vini Umbri fu molto alto durante l'epoca Etrusca e Romana e molte sono le lodi scritte da alcuni grandi e importanti autori del passato, come Plinio il Vecchio e Marziale, che ne decantarono le qualità nelle loro opere.
L'Umbria è l'unica regione dell'Italia peninsulare a non essere bagnata dal mare e il territorio è prevalentemente collinare, una condizione che consente un'ottima coltivazione della vite.
Fra le uve a bacca bianca della regione si ricordano Grechetto, Malvasia Bianca, Trebbiano Toscano, Verdello, Canaiolo Bianco e Procanico, mentre fra le uve a bacca rossa si ricordano Sagrantino, Sangiovese, Ciliegiolo, Canaiolo Nero, Montepulciano, Barbera e Gamay.
Clima: continentale, mediterraneo.
Terreno: calcarei,calcarei-arenacei, calcarei-argillosi, calcarei-sabbiosi.
DOCG: Torgiano rosso riserva; Sagrantino di Montefalco
DOC: Assisi; Colli Altotiberini; Colli Amerini; Colli del Transimeno; Colli Martani; Colli Perugini; Lago di Corbara; Montefalco; Orvieto; Rosso Orvietano; Torgiano
IGT: Allerona, Bettona, Cannara, Narni, Spello, Umbria

MARCHE
Il territorio delle Marche offre una variabilità di paesaggio piuttosto ampia. La parte occidentale della regione è caratterizzata dagli appennini e procedendo verso est, dopo avere attraversato territori di tipo collinare divisi da valli, si raggiunge il mare Adriatico. La coltivazione della vite nelle Marche riguarda prevalentemente le aree collinari e le varietà principalmente presenti nei vigneti sono: Verdicchio, Trebbiano Toscano, Bianchello, Maceratino, Pecorino e Passerina, per le uve a bacca bianca; Montepulciano, Sangiovese, Vernaccia Nera e Lacrima per le uve rosse.
Tra i vitigni coltivati nelle Marche riveste particolare importanza il Verdicchio il quale è senza ombra di dubbio il vitigno bianco più importante e versatile d’Italia: dall'antichità sino ad oggi ha conservato una sua storia ed una sua precisa fisionomia permettendo di produrre uno dei vini bianchi più famosi e longevi.
Clima: continentale, mediterraneo.
Terreno: calcarei,calcarei-arenacei, calcarei-argillosi, calcarei-sabbiosi.
DOCG: Vernaccia di Serrapetrona; Conero
DOC: Bianchello del Metauro; Colli Maceratesi; Colli Pesaresi; Esino; Falerio dei Colli Ascolani o Falerio; I Terreni di San Severino; Lacrima di Morro d’Alba; Offida; Pergola; Rosso Conero; Rosso Piceno; San Ginesio; Serrapetrona; Verdicchio dei Castelli di Jesi; Verdicchio di Matelica.
IGT: Marche

I risultati della degustazione
Per questa degustazione abbiamo temporaneamente cambiato i confini veri e propri del Centro, inteso come soggetto strettamente geografico, per due motivi contrapposti; da una parte abbiamo l'esclusione della Toscana che, data la sua imponente viticoltura, meriterà una sessione specifica, interamente dedicata alle variegate realtà dei suoi numerosi terroir; dall'altra vi è, invece, l'inserimento del tutto arbitrario e antigeografico dell'Emilia Romagna, che andrebbe spezzata in due parti e collocata la prima nel Nord-ovest e la seconda nel Nord-est. Ma se l'Emilia in effetti ha qualche cosa in comune con il Nord-ovest (alcuni vitigni e alcune pratiche enologiche), la Romagna ha proprio poco da condividere con il Nord-est (qualche vitigno ormai desueto) mentre condivide con le regioni del Centro uno dei più importanti vitigni italiani, il Sangiovese. Perché sembrerebbe così importante questa forzatura geografica? È presto detto: perché entrare a far parte del Centro, in questo momento, significa fare parte dell'area geografica più dinamica, creativa ed efficiente del nostro Paese. Si stanno sempre più migliorando e perfezionando l'impiego dei vitigni tradizionali largamente conosciuti, ma anche di piccole gemme quasi sconosciute, mentre l'impiego di vitigni internazionali è molto ridotto e mirato esclusivamente ad ottenere nitide eccellenze, che hanno il solo compito di portare ulteriore prestigio internazionale a queste aree. E allora ieri sera abbiamo parlato di come gli artigianali Lambrusco emiliani stiano svelando la loro generosa personalità e di come i Sangiovese di Romagna si siano ormai affermati in tutte le varianti enologiche. Dell'Umbria si è detto della sua maestria nel trasformare i tratti di una viticoltura marginale in casi di formidabili e repentini successi enologici, comprovati dalle affermazioni commerciali diventate materia di studio in numerose Università. Si è data identità al Sangiovese e si sono raggiunti vertici con alcuni e difficili vitigni internazionali, si è inventato un "caso" come il Montefalco Sagrantino, che ha spinto prestigiose e numerose (forse troppe?) aziende ad investire in questi territori. Le Marche hanno attratto molta attenzione per la capacità di puntare decisamente su alcuni vitigni di grande prestigio; si è fatto diventare il Verdicchio il vino bianco più famoso ed apprezzato d'Italia, straordinariamente capace di ricoprire diversi ruoli enologici; poi si sono fatti nascere alcuni vini a base di Montepulciano, che sono presto diventati dei vini mitici, apprezzati e ricercati in ogni parte del mondo, esempi di viticoltura e di enologia estreme capaci di dare emozioni indimenticabili. Ma anche il matrimonio tra Sangiovese e Montepulciano dei vini del Conero sta costantemente aumentando il numero di aziende che lasciano stupefatti. E senza dimenticare che questa regione conserva anche alcuni vitigni che generano gemme enologiche quali la Vernaccia di Serrapetrona e il Lacrima di Morro d'Alba. Abbiamo dovuto tirare un po' le orecchie al Lazio, perché non è ancora riuscito a farci neppure immaginare come potevano essere i vini dei Castelli Romani tanto decantati fin dai tempi dei latini, e sappiamo bene quanto loro di vino se ne intendevano; a questa regione possiamo solo ascrive la recente riscoperta del Cesanese, a lungo maltrattato, ora finalmente vanto di poche aziende del Frusinate. Tanto di cappello, invece, per l'Abruzzo, che continua la sua marcia trionfale verso successi enologici fino a qualche anno fa inimmaginabili. Qui il Montepulciano da secoli ha trovato un habitat eccezionale, qui i vignaioli hanno re-imparato a impiantare e gestire bene le vigne, a vinificare con le dovute cure, ad usare bene le botti di legni puliti e sani. In sostanza moltissime aziende hanno chiuso quell'intervallo durato una quarantina d'anni nel quale la quantità aveva preso il sopravvento sulla qualità. E in questa propulsione qualitativa ha trovato spazio anche il Trebbiano, ma soprattutto hanno trovato voce e spazio due vitigni dalla netta e distinta personalità come Passerina e Pecorino (un po' evanescente la prima, più saldo e consistente il secondo).

Abbiamo parlato di Centro Italia assaggiando questi vini:

Colle Civetta Pecorino Colline Pescaresi 2009 – Pasetti – Francavilla al Mare (Ch)
Verdicchio dei Castelli di Jesi Classico Superiore Balciana 2008 – Azienda Agricola Sartarelli – Poggio San Marcello (An)
Cervaro della Sala Umbria Bianco 2008 -Tenuta Castello della Sala – Ficulle (Tr)
Pjcol Ross Lambrusco Spumante Brut 2008 -Azienda Agricola Moro – Rinaldini – Sant'Ilario d'Enza (Re)
Era Umbria Rosso 2008 – Tenuta Patrizia Lamborghini – Panicale (Pg)
Montefalco Sagrantino 2007 –  Cantine Lungarotti Giorgio – Torgiano (Pg)
I 2 Rosso delle Marche 2008 – Azienda Agricola Veneranda Vite – Montemarciano (An)
Barricadiero Marche Rosso 2008 – Azienda Agrobiologica Aurora – Offida (Ap)
Kurni Marche Rosso 2008 – Azienda Agricola Oasi degli Angeli – Cupra Marittima (Ap)
Conero Riserva Gianco 2007 – Società Agricola Polenta – Ancona
Montepulciano d'Abruzzo Terre dei Vestini Riserva Bellovedere 2006 – Fattoria La Valentina – Spoltore (Pe)
Montepulciano d'Abruzzo Harimann 2006 – Pasetti – Francavilla al Mare (Ch)

DA LECCARSI I BAFFI.
Ci mancava solo che un nostro affezionatissimo sostenitore, Silvio Magni, portasse un bello spicchio di Branzi stagionato sei mesi: il pubblico non se ne voleva più andare a casa.

G.B.

 

DULCIS IN FUNDO: BOTRITYS O NON BOTRITIS

Botrytis…
La Botrytis cinerea è un fungo parassita che attacca molte varietà di piante, anche se i fra i diversi ospiti quello economicamente più rilevante è la vite, della quale aggredisce i grappoli d'uva). Si tratta di un fungo microscopico che si infiltra nella pianta attraverso ferite o lesioni di rami o steli.
Il fungo provoca due differenti tipi d'infezione sull'uva:
– marciume grigio o ignobile: si verifica in corrispondenza della maturazione e richiede una costante e prolungata condizione di terreno imbibito o un elevato grado di umidità atmosferica. L'infezione provoca la caduta dei grappoli colpiti.
– marciume nobile: si verifica quando, in condizioni generali di clima più caldo e secco, si alternano condizioni umide per effetto della deposizione della rugiada mattutina o di episodi piovosi che innalzano il grado di umidità e favoriscono una diffusione limitata del fungo il cui sviluppo larvato, invece di far marcire gli acini, ne concentra gli zuccheri e conferisce loro un particolarissimo sapore, assai piacevole. La combinazione di eventi, favorita da una maggiore resistenza specifica al fungo di alcune varietà di uva, può produrre dei vini liquorosi e dolci e la Botrytis cinerea diviene, in questo caso, una vera e propria muffa nobile. La stessa può fare la sua comparsa sia sulle uve in via di appassimento che su quelle lasciate a seccare. Dal latino cinerea (fatta di cenere) per il colore grigio cenere assunto dall'uva a causa della sporata di questa specie.
Gli effetti della Botrytis cinerea sulle uve creano un incredibile concentrato ed il mosto dolce si trasforma nei più fini, e cari, vini da dessert del mondo. Del resto, per farne un bicchiere occorre grosso modo l’intera produzione di una pianta. I Sauternes francesi ed i vini tedeschi Trockenbeerenauslese sono gli esempi più grandi e più classici, anche se la Botrytis cinerea attacca i vigneti in tutto il mondo.
I primi cenni storici documentati che riportano notizie di uve affette dalla Botrytis Cinerea, chiamata anche muffa nobile, vengono dall’Ungheria (1650) nell’area del Tokaj. Tale scoperta è da attribuire a Matè Szepsi Laczkò prete e responsabile della produzione vinicola di Zssuzsanna Loràntfly.
Nonostante non si abbiano notizie certe, è possibile che la Botrytis Cinerea fosse utilizzata nella zona del Château d’Yquem già nel 1660. È invece documentato che a Sauternes la produzione di vini dolci fosse consolidata già dal XVIII secolo, e vantasse celebri acquirenti quali Thomas Jefferson.
o non Botrytis?
I vini passiti sono ricavati da uve appassite, ossia private di buona parte del loro contenuto di acqua (disidratazione). Lo scopo di tale procedimento è quello di sottoporre l'uva ad una sorta di sovramaturazione al fine di elevarne il tenore zuccherino.
L'origine del vino passito si perde nella notte dei tempi e il suo nome deriva, ovviamente, dal tipo di uva utilizzato, uva appassita appunto o "uva passa".
Gli acini raggiungono un'elevata concentrazione zuccherina che può arrivare anche al 40%; in pratica da 100 chili di uva fresca, per effetto dalla disidratazione, si possono ottenere circa 60 chili di uva appassita.
L'appassimento può essere di due tipi:
– naturale, nel caso in cui l'uva sia lasciata appassire direttamente sulla vite,
– forzato o artificiale, quando l'uva è prima vendemmiata (solitamente in anticipo rispetto a quanto avviene per quella destinata a vini normali) e poi lasciata appassire all'aperto (appesa oppure distesa su stuoie o graticci) oppure al chiuso, in ambienti controllati per quanto riguarda la temperatura e il grado di umidità.
Dopo l'appassimento, che può durare fino a novembre o dicembre e in alcune zone fino a febbraio-marzo, le uve vengono pressate e vinificate (utilizzando di solito il metodo di vinificazione in bianco) ed il periodo di affinamento può durare anche alcuni anni.
Un ulteriore sistema per ottenere i vini passiti è quello della estrazione a freddo, consistente nel lasciare le uve appena raccolte ad alcuni gradi sotto lo zero per una notte e pressarle immediatamente dopo; poiché a temperature appena al di sotto dello zero congelano solo gli acini meno maturi (che contengono più acqua), il mosto che si ottiene sarà ricavato solo da quelli più maturi, quindi più ricchi di zucchero.

IL RISULTATO DELLA DEGUSTAZIONE

Botrytis o non botrytis? Questo è il problema.
– se sia più nobile d'animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell'iniqua muffa (fortuna), o prender l'armi contro un mare di miceli (triboli) e combattendo disperderli.
Oppure:
– se sia più nobile nella mente soffrire i colpi di fionda e i dardi dell'oltraggiosa muffa (fortuna) o prendere le armi contro un mare di miceli (affanni) e, contrastandoli, porre loro fine.
Scusate l'irriverente gioco con i serissimi dubbi amletici, ma è solo per farvi capire quante diverse declinazioni possiamo avere da una semplice (?) traduzione per immaginare quante sfumature potremo avere in vini che hanno accolto o rifiutato la botrytis cinerea, la famosa muffa nobile. La dobbiamo considerare iniqua e oltraggiosa? I suoi effetti sul vino sono dardi o pietre alla qualità? O effetti collaterali sopportabili, se non persino auspicabili? Difficile esprimere giudizi categorici sul ruolo che la muffa svolge nell'appassimento e nella vinificazione degli acini; sicuramente conta di più sapere che la botrytis è uno dei tanti modi di appassire le uve, come vi sono tanti modi di vinificarle perché diversi saranno gli obiettivi enologici che si intende raggiungere. Per prima cosa dobbiamo però sapere che l'appassimento, qualunque esso sia e su qualunque vitigno sia applicato, tende a modificare il quadro aromatico varietale sommergendolo con Norisoprenoidi e Lattoni che daranno profumi di miele ed albicocca, mentre la Bortytis Cinerea per prima cosa schiarirà i vini, bruciando le sostanze coloranti e rendendoli, così, meno ossidabili, quindi anche più longevi. Inoltre, a questo fattore cromatico si aggiunge un fattore aromatico, con l'inserimento di note di funghi e fichi secchi ed una sorta di tono vegetale amarognolo.
La dozzina di vini che ieri sera abbiamo assaggiato appartenevano alle due categorie; per primi i non botrytis, che hanno sfoggiato tutta la loro carica fruttata dolce e matura, sostenuta da note mielate e da una freschissima acidità: si è passati da caratteri delicati fino a imponenti cariche terpeniche in un Moscato, o a schiette note ossidative in un Vinsanto. I botrytizzati passavano, invece, dai lievi accenni fungini su un impianto moderatamente floreale di un Picolit fino alla precisa e più incisiva diffusione odorosa della muffa su uve aromatiche, ricche di finissimi terpeni.
Il pubblico della serata si è presto appassionato a questi temi ed ha mostrato di non volersi schierare per non precludere il piacere derivante dall'una o dall'altra parte, ma ha chiaramente palesato di gradire le applicazioni più ricche ed evidenti ponendo al vertice dei non botrytizzati uno splendido Alto Adige Moscato Giallo Passito Serenade Castel Giovanelli 2007 della Cantina di Caldaro e tra i botrytizzati un elegantissimo ed avvolgente Muffato della Sala Umbria 2006 di Castello della Sala.
Ma non posso tacervi che abbiamo aperto la serata con la degustazione di una perla enologica di eccelsa unicità, realizzata da Mattia Vezzola, un Maestro della nostra enologia, nel 1995 in una giovane vigna di chardonnay nelle tenute di Vittorio Moretti. Un andamento climatico inusualmente altalenante, umido, fresco e ventilato ha portato la botrytis cinerea su queste vigne: una vendemmia storica, recita l'etichetta, ed il vino, buonissimo quando uscì, si è fatto grande. Chiaro, fresco, fruttato, con un poco di fungo secco e intervalli vegetali e minerali che giocano con gusti dolci e amari; finissimo il carattere, lunga la persistenza. Il suo titolo per esteso è Terre di Franciacorta Bionaco 1995 Una Vendemmia Storica, scritto da Mattia Vezzola ed edito da Bellavista di Erbusco.
G.B.

 

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