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Gen 27 2022

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CARNE IN VITRO O VEGETALE, LA SCOMMESSA HI-TECH CHE VUOLE SALVARE IL PIANETA

Nel 2013 il primo hamburger sintetico costò 300mila dollari. Ora l’abbattimento dei costi potrà ridurre l’emissione di gas serra

La carne non-carne, finanziariamente parlando, è molto appetitosa. Sia che si parli di quella “coltivata” a partire da alcune cellule staminali animali che di quella costruita con proteine vegetali, tutti sembrano volerne un pezzettino convinti che il banchetto, quando inizierà, sarà una crapula. La cosa più nuova è la curated meat, nota anche come “carne in vitro”, “pulita” o con una manciata di altri appellativi che rispondono ognuno a una diversa sfumatura di sensibilità (se dici “pulita” sottintendi che quella tradizionale sia sporca e gli allevatori si offendono). Con una biopsia estrai una cellula dall’animale che vuoi replicare, la metti in bioreattori, grossi cilindri di acciaio simili a quelli per fermentare la birra, e la fai crescere in un brodo di nutrienti. Solo negli ultimi due anni, ha calcolato Crunchbase, il settore ha ricevuto 2 miliardi di dollari di investimenti (il mercato della carne fatta con le proteine di piselli o soia ne vale già 29 miliardi e, stando a uno studio Bloomberg, raggiungerà i 162 entro il 2030).

Il primo hamburger del genere, partorito da un gruppo di ricerca capitanato da Mark Post dell’università di Maastricht, è stato presentato nel 2013: ci sono voluti due anni per realizzarlo, alla modica cifra di 300 mila dollari. Però, solo sei anni dopo, un ristorante di Singapore (il primo, e al momento unico Paese al mondo ad aver autorizzato la commercializzazione) serviva bocconcini di pollo ottenuto in laboratorio dall’americana Eat Just – nessuna parentela con Just Eat – nei dintorni dei 17 dollari. Il suo fondatore, Josh Tetrick, in un’intervista, immagina un futuro dove la troveremo sia nei ristoranti stellati che dai kebabbari ma, avverte, “potrebbero volerci 300 come 30 anni”, dipende dalle autorizzazioni governative e dal cambiamento culturale nella testa dei consumatori. La scommessa, ovviamente, è che i prezzi crollino. E uno studio recente della società di consulenza CE Delft arriva a ipotizzare che, entro la fine del decennio, si potrà comprare sui 5 dollari al chilo e a quel punto la concorrenza con la carne vera si farebbe seria.

Perché dal punto di vista del marketing la carne finta parte ambientalmente avvantaggiata e, volendo forzare la mano, potrebbe quasi arruolare Greta Thunberg tra i suoi potenziali testimonial. La premessa è che gli animali allevati per il cibo sono responsabili del 14,5 per cento delle emissioni globali, quantifica la Fao. Nel caso della carne vegetale, che già si trova nei ristoranti e nei supermercati, i risparmi sono di circa il 90 per cento quanto a gas serra, consumo di acqua e di terra. Mentre per quella in vitro, che pur sempre prevede qualche animale da cui estrarre le cellule, la contabilità verde è più difficile ma Charles Godfray, direttore del programma sul futuro del cibo a Oxford, assicura che il risparmio sarebbe “molto considerevole”. Una promozione che intercetta lo spirito del tempo e spiega perché questa nicchia potrebbe diventare affollata come certi allevamenti intensivi. Sarebbero un centinaio le start up che ci stanno puntando, a giudicare da un censimento recente del Good Food Institute, che però non fa segreto di essere militante. Ma basta dare un’occhiata alla pagina curated meat di Wikipedia per capire quanto lunga e in continuo aggiornamento sia la lista dei partecipanti.

Oggi i principali centri dell’innovazione sono la Silicon valley, Israele e l’Olanda. Ma la notizia con implicazioni più grandi viene dalla Cina. Nei giorni scorsi, presentando il piano quinquennale, il ministero dell’agricoltura ha per la prima volta incluso la carne in vitro e altri cibi del futuro come la carne vegetale nelle proprie linee guida per la “sicurezza alimentare”. Considerato che i suoi consumi di carne sono triplicati dal 1980 e oggi ne consuma quasi un terzo di quella mondiale è una novità che, da sola, potrebbe rivoluzionare il mercato. Senza contare che, da principale inquinatore di gas serra, consente a Pechino di fare bella figura impegnandosi a “de-carnizzare” i suoi consumi. Tra i più entusiasti l’americano Tetrick, mister Eat Just, a Time: “È una, se non la più importante svolta nella storia delle proteine alternative”.  Fonte La Repubblica, Riccardo Staglianò, 27.01.2022

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