In 35 anni l’associazione è molto cambiata, in nome di una maggiore consapevolezza “politica”, basata su sostenibilità e biodiversità. Perdendo, forse, la sua anima anarchica e corsara
“Proponiamo il vaccino di un’adeguata porzione di piaceri sensuali assicurati da praticarsi in lento e prolungato godimento. Da oggi i fast food vengono sostituiti dagli slow food, cioè da centri di goduto piacere. Si riconsegni la tavola al gusto, al piacere della gola”.
Era il 3 novembre del 1987, e in un inserto di 8 pagine all’interno del Manifesto iniziava una storia rivoluzionaria. Nasceva Slow Food che, nel sottotitolo, così si autodefiniva: “Movimento internazionale per la tutela e il diritto al piacere”. E chiosava: “Lo slow-food è allegria, il fast food è isteria. Sì, lo slow-food è allegro!”. Il cibo e la cucina venivano sdoganati, diventavano cultura (materiale, certo, ma cultura). E i buongustai uscivano dal macchiettistico luogo comune di golosi crapuloni e simpatici beoni, per divenire quello che realmente sono: appassionati cultori del buono, consapevoli che dietro un formaggio o un bicchiere di vino ci sono uomini e donne, fatica, terra, tradizioni, storia.
La fondazione di Slow Food (ph. www.slowfood.it)
Partiva così una cavalcata travolgente che trasformò il piccolo gruppo capitanato da un visionario Carlo Petrini in una potenza mondiale. Anni entusiasmanti. Nascono i presìdi che fanno riscoprire prodotti quasi dimenticati, arrivano le condotte sul territorio, fonte costante di iniziative e serate conviviali. Ed ecco, nel 1996, la prima, straordinaria, edizione del Salone del Gusto. Il programmatico diritto al piacere diventa realtà. Ma ora avanti veloce fino ai giorni nostri. Le parole d’ordine del Movimento sembrano decisamente cambiate. Il Salone del Gusto è stato quasi fagocitato da Terra Madre. Il “piacere” e la “goduria” hanno lasciato il posto a biodiversità, sostenibilità, salvaguardia delle comunità indigene, globalizzazione. Tutto giusto, per carità, e tutto meritevole. Sicuramente molto etico e corretto, e altrettanto certamente politico, nel senso nobile del termine.
Carlo Petrini (ph_Alessandro_Vargiu)
Eppur, se si volge lo sguardo alle istanze del passato, qualcosa sembra essersi perduto. Forse per sempre. Edward Mukiibi, il neo eletto presidente, è sicuramente uno straordinario interprete del nuovo spirito del Movimento. Però nelle sue interviste, e nei suoi discorsi, le parole d’ordine iniziali di Slow Food (la gola, il piacere, la convivialità) sembrano quasi non avere più diritto di cittadinanza. Più in generale, che nostalgia per la Slow Food anarchica e goduriosa degli esordi, per le battaglie a colpi di culatello invece che di slogan, per le discussione a tavola, in osteria, rispetto a quelle alle tavole rotonde, nei centri congressi. La sensazione è che si sia perso un po’ (o tanto?) di quello spirito corsaro, gioioso e quasi fanciullesco. Quello spirito carbonaro di chi, tra un discorso impegnato e l’altro, metteva comunque in primo piano il piacere e la soddisfazione dei sensi.
Sarebbe ingeneroso parlare di “tradimento” delle origini e del manifesto fondativo. Più corretto parlare di evoluzione. Però, siamo davvero sicuri che le battaglie contro lo svilimento dell’atto del mangiare, il fast food e la cultura del “si mangia tanto e si spende poco” siano state definitivamente vinte? Onestamente osservando i modelli alimentari medi sembrerebbe proprio di no. Forse c’è ancora da combattere, puntando su un consapevole senso di goduria. Diceva pochi anni fa Carlo Petrini nel libro “Slow Food. Storia di un’utopia possibile”: “Un ambientalista non gastronomo è triste, un gastronomo non ambientalista, è sciocco”. Vero, verissimo. Il dubbio che viene è però che la Slow Food di oggi sia buona, pulita, giusta (e sostenibile, terzomondista e globalizzata). Ma ormai, forse, anche un po’ triste. Fonte: laRepubblica, IL GUSTO, Antonio Scuteri, 24.09.2022