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Feb 12 2019

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LA DENUNCIA GREENPEACE

«I fondi europei? Se li mangiano i maiali» Le conseguenze economiche della Pac: «In Europa il 71% delle aree agricole serve per produrre cibo per animali, non per gli uomini». La scomparsa delle aziende agricole più piccole. I rischi per l’ambiente e per la salute delle persone. E la petizione per cambiare le regole Ue: «Niente soldi agli allevamenti intensivi»

 

Il 71% di tutta la superficie agricola dell’Unione europea è destinato all’alimentazione del bestiame e di conseguenza solo il restante 19% a prodotti coltivati per il consumo diretto delle persone. Agli allevamenti intensivi e alle aziende che producono alimenti per il bestiame la Ue versa, attraverso la Politica agricola comune (Pac) una somma compresa tra i 28,5 e i 32,6 miliardi di euro, secondo meccanismi che favoriscono le aziende di maggiori dimensioni, con la conseguenza della progressiva scomparsa di quelle più piccole, mentre quelle più grosse incrementano il numero dei capi allevati. Non solo: quattro Paesi dell’attuale Ue a 28 Stati — Germania, Francia, Spagna e Regno Unito — sommano più della metà dei capi di bestiame allevati nel territorio comunitario (nello specifico: il 54% dei bovini, il 50% dei suini e il 54% di ovini e caprini). report di Greenpeace

Verso la nuova Pac

I numeri emergono da un rapporto che Greenpeace ha commissionato al giornalista investigativo Nils Mulvad, data specialist e fondatore del sito FarmSubsidy.org, e che viene pubblicato oggi in tutta Europa. Il rapporto — titolo originale Feeding the problem, che in italiano diventa un eloquente «Soldi pubblici in pasto agli allevamenti intensivi» — è accompagnato da una petizione internazionale che chiede a Bruxelles di rivedere i criteri con cui vengono erogati i fondi comunitari, con una netta virata verso l’agricoltura sostenibile. La discussione sulla Pac (che drena da sola il 40% del bilancio Ue) per il periodo 2021-2027 è già avviata: in questi giorni se ne parla in commissione Ambiente, a marzo approderà in commissione Agricoltura. E ad aprile potrebbe approdare nell’aula dell’Europarlamento. Ma difficilmente la pratica si chiuderà in questa legislatura ormai agli sgoccioli e toccherà dunque ai prossimi governanti europei definire le nuove linee guida del sistema agricolo comunitario. «A parole dicono tutti di volere spostare l’attenzione su un’agricoltura sostenibile — commenta Federica Ferrario, responsabile campagna agricoltura di Greenpeace Italia (LEGGI L’INTERVISTA) —, ma di fatto non si cambiano le regole di erogazione dei contributi, che spazzano via le aziende più piccole facendo cambiare volto all’allevamento nel nostro continente».

La scomparsa dei piccoli

Lo studio evidenzia che tra il 2005 e il 2013 hanno cessato la loro attività circa 3,7 milioni di aziende agricole (passate da 14,2 a 10,7 milioni), con un calo del 26%. Nel solo settore zootecnico la riduzione è stata del 32% in termini proporzionali e di quasi 3 milioni in numeri assoluti. Parallelamente al calo del numero di aziende, aumentano le dimensioni di quelle che restano operative. I dati raccolti da Eurostat certificano che nel periodo preso in considerazione le aziende di grandi dimensioni hanno aumentato di 10 milioni le «unità di bestiame», arrivando ad un totale di 94 milioni. Con il risultato che quasi tre quarti dei capi (il 72,2%) nel 2013 risultavano allevati da aziende di grandi dimensioni. Nello stesso periodo il numero di quelli allevati nelle aziende più piccole si è più che dimezzato e ora supera di poco il milione. Greenpeace sottolinea dunque l’impatto che a livello socio-economico questo trend sta generando. Il denaro dei contribuenti non viene utilizzato per sostenere l’agricoltura tradizionale e la coltivazione di prodotti destinati direttamente alle persone, bensì per alimentare una filiera che ruota alla produzione di carne e che avvantaggia soprattutto i grandi gruppi. «Come dire che i fondi europei se li mangiano i maiali» dicono gli ambientalisti.

La produzione di carne

Tra il 2000 e il 2017 la produzione lorda di carne nell’Ue è aumentata del 12,7%, passando da quasi 42 milioni di tonnellate a quasi 48. Le previsioni sul consuntivo del 2018, ancora non disponibile, parlano di un ulteriore aumento di 871 mila tonnellate. Gli effetti di questo trend sono negativi anche da un punto di vista ambientale perché gli allevamenti sono responsabili del 12-17% dei gas serra prodotti nel territorio Ue. Al settore agricolo sarebbe ascrivibile anche l’80% delle emissioni europee di ammoniaca in aria e di azoto nelle acque, di cui l’80% ascrivibile agli allevamenti. Il Rapporto europeo sull’azoto certifica che questo tipo di inquinamento costa all’Ue fino a 320 miliardi di euro all’anno ed espone circa 18 milioni di persone al rischio di bere acqua con concentrazioni di nitrati superiori ai livelli raccomandati per la salute umana.

L’antibioticoresistenza

E sempre in campo sanitario, gli allevamenti intensivi sono considerati tra i principali responsabili dell’antibioticoresistenza, ovvero la capacità di batteri di sviluppare assuefazione agli antimicrobici utilizzati in grandi quantità negli allevamenti. Questo significa rendere progressivamente inefficaci gli antibiotici per uso umano perché i batteri che colpiscono animali e uomo anche se differenti appartengono alle stesse famiglie. Non a caso l’Oms ha definito l’antibioticoresistenza «emergenza sanitaria globale». Ecd, Efsa e Ema nel 2017 hanno pubblicato una relazione congiunta che ha evidenziato come l’uso di antibiotici per animali sia stato nella Ue più del doppio rispetto a quello di antibiotici in medicina umana.

Una dieta più «veg»

La soluzione? Spingere sempre di più verso un’alimentazione a prevalenza vegetariana. Il rapporto Lancet pubblicato a gennaio segnala la necessità di una riduzione di almeno il 50% dei consumi di carne rossa e di un raddoppio del consumo di legumi, noci, frutta e verdura. Per una questione di salute, perché i consumi di carne e latticini nella Ue sono stimati in circa il doppio rispetto a quelli raccomandati, ma anche di tutela dell’ambiente. Greenpeace cita studi secondo cui il dimezzamento di prodotti di origine animale permetterebbe di ridurre le emissioni di gas serra europee del 25-40%.

Cambiare le regole

Nell’anno del rinnovo del Parlamento europeo c’è dunque l’invito a cambiare le regole con cui la Ue finanzia il settore agricolo e zootecnico. «Anche perché — dice ancora Federica Ferrario — quella sulla quantità sarà una battaglia persa nei confronti di Paesi come gli Usa o il Canada che possono contare su territori vasti e non hanno una tradizione di qualità da difendere. Non hanno, come noi, un made-in-Italy da giocarsi, un valore aggiunto di eccellenza da far valere. Se il nostro prodotto si snatura non può più essere difeso. Sono temi scottanti, hanno a che fare con i guadagni immediati. Ma ci si ragiona e si corre ai ripari ora che si riesce ancora a cambiare rotta, oppure si finisce col soccombere». Greenpeace chiede alla Ue di avviare politiche che inducano gli allevatori a produrre meno e meglio e il settore agricolo a produrre più frutta e verdura. Inoltre, per il gruppo ambientalista, vanno stabiliti criteri rigidi sul numero di capi posseduti e di conseguenza sull’inquinamento prodotto e a questi far sottostare l’erogazione di finanziamenti pubblici. Secondo un principio: niente soldi a chi mette a rischio l’ambiente. Fonte: Corriere della Sera, Alessandro Sala, 12.02.23019

 

 

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