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Gen 08 2019

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VIETNAM: BENVENUTI NEL PAESE DEL CAFFÈ (E DEI PARADOSSI)

La terza nazione produttrice del mondo è anche una delle più giovani ad affacciarsi a questo mercato. Dagli anni ’70 a oggi, molta strada è stata fatta e ora si punta alla qualità

 “Durante la guerra americana era pericoloso raccogliere il caffè”. Lo racconta Nguyen Van Man, coltivatore nella provincia di Dak Lak, Vietnam centrale, dove “molte piantagioni appartenevano agli americani e sotto di esse c’erano i tunnel scavati dai vietnamiti per rifugiarsi e attaccare con imboscate a sorpresa. Era meglio acquistare caffè solubile al mercato nero: di solito proveniva dalle razioni dei soldati statunitensi e in gran parte era di origine brasiliana o filippina”. Oggi che il Vietnam è il secondo produttore ed esportatore mondiale di caffè, dietro solo al Brasile, e primo per la varietà Robusta, si sorride di fronte al paradosso cui i vietnamiti per anni sono stati costretti.
Ma la storia del caffè vietnamita, oltre che di questi paradossi, è fatta di benefici coloniali e orgogliose riappropriazioni culturali. Ai bordi delle caotiche strade dell’ex Saigon, oggi Ho Chi Minh City, si trovano centinaia di caffetterie di ogni tipo, indipendenti, appartenenti a catene locali come Highland Coffee o internazionali come Starbucks, nel Paese dal 2013. Turisti e vietnamiti siedono a contemplare il caffè che goccia lentamente attraverso il phin, un filtro d’acciaio appoggiato direttamente sulla tazza. Tempo medio passato a sorseggiarlo: venti minuti, che diventano quaranta nella regione del Delta del Mekong. È il modo con cui i locali oggi si godono questa bevanda amara, di solito aggiungendo latte condensato e ghiaccio.

l lungo rituale e i numeri del caffè vietnamita nel mondo farebbero pensare a una tradizione centenaria del chicco nero in questa striscia di terra stretta tra Cambogia, Laos e Mar Cinese Meridionale. Ma basta chiedere ai coltivatori da quanto tempo fanno questo lavoro per rendersi conto che la maggior parte di loro ha iniziato a coltivare caffè solo di recente. Nguyen Chi Thanh, per esempio, coltivava riso prima di partire per la guerra in Cambogia nel 1979. Quando è tornato in Vietnam, nel 1982, ha cominciato a lavorare nelle piantagioni di caffè, a quei tempi tutte di proprietà statale. Nessuno allora vedeva il chicco introdotto nel Paese dai francesi a metà Ottocento come un prodotto locale, e in pochissimi ne bevevano l’estratto: “Le aziende statali puntavano su una produzione intensiva che ignorava la qualità del prodotto”, racconta Chi Thanh, “spesso raccoglievamo i chicchi fuori tempo, quando non erano ancora maturi. La qualità perciò era molto bassa”.

Solo nel 1986, con le riforme economiche del Doi Moi che hanno aperto il paese al libero mercato, i vietnamiti si sono accorti delle potenzialità fino a quel momento ignorate del caffè. Quell’anno nel Paese vennero raccolte 18.400 tonnellate di chicchi, meno dell’1% del totale mondiale, ma in tre decenni i volumi sarebbero quasi centuplicati, facendo del Vietnam il secondo produttore ed esportatore di caffè. Nel 2017 ne sono stati raccolti 1.77 milioni di tonnellate, il 18,5% del totale mondiale. Una crescita favorita anche dagli investimenti internazionali, che non si è ancora arrestata. “L’obiettivo oggi è aumentare il valore e non i volumi delle piantagioni”, spiega Will Mackereth, direttore Supply Chain di Nescafé Vietnam. “Le piantagioni esistenti spesso sono composte da piante deboli e poco produttive. Dal 2011, nell’ambito del Nescafé Plan, abbiamo messo a punto con il locale istituto di ricerca e sviluppo Wasi un sistema di rinnovamento delle piante che arriva a duplicare la produttività per ettaro delle piantagioni esistenti. In otto anni abbiamo distribuito 27 milioni di nuove piantine, controllando ogni volta che venissero effettivamente sostituite, e non rivendute o utilizzate per creare nuove piantagioni”.

Il Governo oggi vieta di aumentare gli ettari coltivati a caffè a danno delle foreste. Ma capita, sorvolando le aree più incontaminate del Paese, di vedere piccoli rettangoli verde chiaro interrompere come rattoppi la continuità delle foreste: sono le piantagioni illegali. Per Will Mackereth invece c’è ancora molto margine per l’aumento della produzione senza bisogno di disboscare neanche un ettaro di foresta. I coltivatori di solito procedono gradualmente al rinnovamento della piantagione perché i nuovi esemplari, pur garantendo una resa molto superiore in termini di volumi e qualità, diventano produttivi solo dopo 2-3 anni dall’interramento. Oggi è molto diffusa anche la pratica dell’intercropping, cioè la diversificazione della piantagione per proteggersi dalle oscillazioni annuali dei prezzi: oltre alle piante di caffè, che la fanno da padrone, nello stesso terreno crescono , banani, anacardi o più spesso pepe nero. Al termine della raccolta i coltivatori, con l’intermediazione delle cooperative, possono scegliere a chi vendere il loro caffè. Nestlé acquista da sola il 25-30% della produzione nazionale: in parte questo caffè viene esportato crudo, in parte lavorato nello stabilimento di Tri An.

Se invece che nel regno di Willi Wonka, Roald Dahl avesse portato il suo Charlie Bucket in una fabbrica del caffè, al posto dei fertili fiumi di cioccolato avrebbe descritto arse dune sabbiose tinte di ogni tonalità di marrone. Tra chicchi tostati, caffè macinati, montagne di solubile e sabbiosi concentrati di caffeina, la fabbrica di Tri An è il tempio delle polveri, tutte ottenute con metodi 100% naturali. Anche la decaffeinizzazione – due le fabbriche dell’azienda a farla, l’altra è a Girona, in Spagna – viene effettuata sul chicco verde attraverso il solo uso di acqua, senza aggiunta di composti artificiali. La caffeina di scarto che si accumula al termine del processo è all’apparenza un’innocua polvere ocra, ma gli indisciplinati personaggi di Roal Dahl con questa avrebbero potuto correre guai molto più seri di quelli avuti col cioccolato. Fonte: La Repubblica, Nicola Baroni, 08.01.2019

 

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