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Nov 26 2021

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CAMBIARE PROSPETTIVA: DOBBIAMO FIDARCI DELLA SCIENZA ANCHE SUL CLIMA, NON SOLO PER IL COVID

Con i lavori della Cop26 sono riemerse le resistenze ai cambiamenti che gli scienziati, ormai da decenni, invocano a gran voce come indifferibili. Eppure due anni ci ripetiamo che per uscire dalla crisi pandemica dobbiamo dare retta alla scienza. Perché questo doppio metro?

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Perché sulla pandemia da Covid-19 siamo costantemente e giustamente spinti – da governi e mondo economico – ad affidarci alla scienza, a seguirne le indicazioni, e invece sul tema del cambiamento climatico questo non avviene, o avviene molto meno? Perché in questo caso sopravvivono, trovano spazi e accreditamento posizioni negazioniste o benaltriste e di resistenza al cambiamento – che pure la scienza definisce assolutamente necessario per la nostra vita, così come il vaccino?

I no vax sono irrisi quotidianamente, mentre gli scienziati interpellati per contrastare la disinformazione dilagante sono avvolti invece da un’aura quasi eroica. A parte gli eccessi, è corretto: da una parte tesi strampalate e senza basi; dall’altra le conoscenze condivise da coloro che sono competenti sul tema.

Ora pensate alla smorfia che molti fanno quando si parla di ambientalisti, ovvero coloro che sostengono la necessità di tutelare l’ambiente, esattamente come suggerito in maniera praticamente unanime dal mondo della scienza. Qui la prospettiva quasi si rovescia. Parti della politica e del mondo economico danno alla definizione “ambientalista” una patina fastidiosa, quasi macchiettistica: soggetti folcloristici, un po’ fuori dal mondo, che rappresentano un interesse parziale non coincidente con quello collettivo.

Ma non è così. L’ambiente è la base della vita in qualunque suo aspetto. Persino il petrolio è prodotto dalle dinamiche ambientali, fisiche e chimiche, cioè naturali. Il mondo ambientalista ha ovviamente molte sfumature, ma nel suo complesso esprime un concetto elementare, basta ascoltare le richieste che fin dall’inizio della loro avventura hanno urlato i ragazzi di Fridays for Future. Letteralmente: ascoltate gli scienziati.

Fino a poco tempo fa, gli appelli sono stati totalmente inascoltati. In alcuni casi persino sistematicamente boicottati e irrisi. In tempi più recenti – in particolare in Europa – qualche passo avanti si è fatto, ma sempre scontando resistenze tremende. Oggi qualche timidissimo accenno all’avvio di azioni un po’ più consistenti c’è, ma è ancora insufficiente. Sono sempre gli scienziati a dirlo.

E invece ci tocca pure assistere alle reazioni stizzite di coloro che sono responsabili dell’inazione. C’è chi arriva ad affermare che sia quasi eversivo dire che i governi sono immobili. Nientemeno: non è eversivo chi sparge veleno e morte (dati accertati, non romanzo), ma chi chiede attenzione all’ambiente e alla salute. C’è poi chi solleva il sopracciglio infastidito e afferma, a proposito dell’accusa lanciata da Greta Thunberg di ridurre ogni conferenza internazionale a un inutile «bla bla bla»: “La democrazia è fatta di bla bla bla, i processi democratici avvengono parlandone. In uno spirito democratico, i processi passano attraverso il bla bla bla”. Quindi si discute non di cosa fare e quanto in fretta, che sarebbe l’unico argomento sensato. Ma addirittura del “se”. Ma, quindi, dovremmo aprire un dibattito anche sulle strampalate teorie antivacciniste, perché così vuole la regola democratica?

Il negazionismo vero e proprio in campo climatico è ormai ai margini, anche se trova incredibilmente ancora qualche spazio. Ma galleggia comunque un malcelato scetticismo, cioè l’insidioso negazionismo mascherato.

Eppure i dati e numeri non mentono. Ad esempio: per la Global Energy Alliance for People and Planet, lanciata alla Cop26 di Glasgow, si promettono 100 miliardi di dollari ai Paesi in via di sviluppo per la transizione energetica verso le fonti rinnovabili. Ma, secondo il Fondo monetario internazionale, i sussidi ai produttori di petrolio nel solo 2017 sono ammontati a 5200 miliardi di dollari, 52 volte di più, equivalente al 6,5 per cento del Pil globale. 

Sussidi per 5200 miliardi all’industria petrolifera. Il dato è sorprendente, vero? Perché siamo abituati a pensare che la redditività dell’estrazione petrolifera sia immensa. Perché per decenni ci siamo sentiti raccontare che le fonti rinnovabili erano poco convenienti economicamente, “a meno che non ci siano sovvenzioni pubbliche”, quasi questa fosse una cosa di cui scusarsi. E intanto i sussidi finanziavano l’estrazione di petrolio, che conta anche su scandalose e sconcertanti facilitazioni dal punto di vista ambientale (leggi: pochi vincoli e cancellazione di limiti alle emissioni di sostanze nocive validi per altre attività produttive).

Scrive il Fondo monetario internazionale: «I sussidi hanno lo scopo di proteggere i consumatori mantenendo i prezzi bassi. Ma hanno anche un costo elevato. I sussidi sono costosi da finanziare per i governi – e quindi per i contribuenti – e possono ostacolare gli sforzi dei governi per ridurre i deficit di bilancio. Sono anche in competizione con altre spese pubbliche prioritarie per strade, scuole e sanità». E: «Tutti i consumatori, sia ricchi che poveri, beneficiano dei sussidi pagando prezzi più bassi. I governi potrebbero ottenere più “bang for their buck” (modo di dire anglosassone che significa ritorno per il denaro speso, ndr) rimuovendo o riducendo i sussidi e indirizzando il denaro direttamente a programmi che aiutano solo i poveri».

Infine: «I guadagni fiscali, ambientali e di benessere derivanti dalla rimozione dei sussidi energetici sono sostanziali. A livello globale, i guadagni delle entrate nel 2015 sono stati stimati in circa 2,8 trilioni di dollari (3,8% del Pil globale) e 3,2 trilioni di dollari (4% del Pil globale) nel 2017. Queste riforme possono anche generare sostanziali benefici ambientali, come la riduzione delle emissioni di CO2 e delle morti premature dovute all’inquinamento atmosferico».

Tra l’altro, non bisogna dimenticare che gli investimenti ‘sostenibili’ producono lavoro, quindi benessere: circa 150 milioni di posti di lavoro è la stima per lo sviluppo di rinnovabili nei Paesi in via di sviluppo. Ma i settori economici interessati dalla transizione ecologica sono molti e con prospettive – gli studi economici lo dicono da tempo – molto positive dal punto di vista dell’occupazione. In tutti i programmi nazionali, internazionali e globali, green economy e blue economy sono definite le uniche prospettive di lavoro, sviluppo e benessere a medio e lungo termine.

Ancora dati. Quando parliamo di cambiamenti climatici, parliamo anche di inquinamenti che incidono direttamente sulla morte delle persone. Nel 2018, secondo i dati dell’Agenzia europea per l’ambiente sono stati 452.400 i morti causati dall’inquinamento in Europa (la stima meno ottimistica, sempre dell’Agenzia, arriva a 600mila), 65.700 in Italia. E i dati dimostrano anche che gli interventi, quando vengono messi in campo, hanno un effetto positivo: le stime 2018 rapportate a quelle 2009 mostrano una riduzione della mortalità europea di circa il 13%. Eppure anche i provvedimenti che hanno limitato negli anni le emissioni in Europa hanno trovato forti resistenze.

I dati valgono in ogni campo e vanno bene anche per coloro che vedono nelle migrazioni l’unico vero problema del nostro tempo. Beh, anche quelle sono in buona parte causate da cambiamenti climatici e inquinamenti. La Banca mondiale stima che oltre 140milioni di persone verranno spinte a migrare entro i prossimi 30 anni per le conseguenze dei cambiamenti climatici. Perché questi stravolgimenti tolgono acqua, cibo, riducono la sicurezza delle persone e il lavoro (siccità e alluvioni), provocano quindi scontri e guerre per accaparrarsi le poche risorse residue.

La Siria è un esempio drammatico: dal 2007 al 2010 una siccità gravissima ha colpito il Paese, da due a tre volte più grave di quella “normale”; questo ha prodotto lo spostamento di numeri enormi di contadini dalle campagne, dove avevano perso tutto, alle città; l’afflusso improvviso e consistente ha accentuato le tensioni sociali preesistenti e favorito lo scoppio della guerra civile e i conseguenti disastri (Isis incluso).

La scienza svolge uno straordinario e gigantesco gioco di squadra, nel tempo e nello spazio, a disposizione di tutti. Ovvero, gli scienziati di oggi si avvalgono delle conoscenze acquisite dagli scienziati di ieri e dell’altro ieri per avanzare nella ricerca e nell’innovazione. Lo sforzo è globale e costante. La conoscenza non è frutto della scoperta del singolo, ma questa è solo l’inizio di un processo che prevede verifiche critiche da parte degli altri scienziati e replicabilità dei processi. Questo è il metodo scientifico. Certamente più affidabile e credibile di valutazioni di parte, che esprimono l’interesse del singolo o di un singolo settore (ad esempio quello petrolifero).

I cambiamenti sono possibili e le strategie – possibilmente globali – devono tenere conto delle difficoltà dei singoli (settori industriali o Paesi) aiutandoli nella transizione. Il ruolo della discussione democratica è fondamentale, ma sulle scelte e le modalità, non sul risultato da ottenere e i tempi in cui realizzarlo. La scienza ci dice: dobbiamo arrivare a quel traguardo di emissioni entro 30 anni. La politica deve individuare il modo per rendere socialmente sostenibile il passaggio, accompagnare le imprese, modulare incentivi ed aiuti, non discutere l’obiettivo.

Il benessere è sostenibile, duraturo ed equo, altrimenti non è più benessere, ma si chiama privilegio. Lo sviluppo vero (non effimero e circoscritto) prevede l’utilizzo razionale delle risorse per migliorare e stabilizzare la qualità della nostra vita. Vivere meglio: è quello che vogliamo tutti, no? 

Più attenzione alla scienza e al benessere diffuso, quindi, e meno spazio ai negazionismi e agli interessi di pochi; più risorse e opportunità a chi innova, ricerca e prepara la nuova rivoluzione, quella ecologica.  Fonte: Linkiesta, Greenkiesta, Franco Borgogno, 26.11.2021

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