La vite e il vino hanno radici ben profonde nella nostra Penisola e in buona parte del Vecchio Continente. La forza di questa connessione è stata quella di sorreggere e caratterizzare per secoli i territori sotto diversi punti di vista: economico, sociale, culturale, nutrizionale, paesaggistico, ma anche e soprattutto ambientale.

Oggi questo legame con il mondo del vino è rimarcato dall’abitudine di riferirci al patrimonio gastronomico anteponendo il prefisso “eno”. Tuttavia, risulta altresì evidente che negli ultimi decenni il mercato e i forti interessi economici abbiano meglio legato con la dimensione degustativa e, ahimè, finanziaria del vino, portando un bicchiere a essere più vicino alle aste di beni di lusso e a schiere infinite di critici degustatori piuttosto che all’agricoltura e al ruolo, anche di custode dell’ambiente, del viticoltore. Il fatto che le radici che legano la nostra cultura al comparto enologico stiano diventando sempre di più superficiali non è, purtroppo, solo una metafora.

La scarsa importanza che abbiamo imparato a riservare alla vite e alla sua gestione nel campo ha portato effetti per nulla trascurabili, soprattutto se si pensa alla grave crisi climatica che ci troviamo ad affrontare. Decenni di uso incondizionato di chimica nei vigneti hanno portato la vite a ridurre anche di oltre 50 volte il suo apparato radicale sotto la superficie.

Se a inizio ‘900 una pianta riusciva a raggiungere anche i 40 metri di profondità (andando così a pescare quantità di sostanze nutritive in grado di conferire naturalmente al vino qualità organolettiche complesse e pregiate sotto ogni punto di vista) e a darci le sensazioni del terroir, oggi mediamente la vite non riesce a spingersi oltre i 70 cm.

Questo è figlio dell’inaridimento causato dalle sostanze chimiche che permeano nei terreni, rendendoli così sempre meno fertili. Ma – in molti territori – è anche strettamente collegato a una siccità (figlia a sua volta della crisi climatica) mai vista prima e che rende il terreno più secco e impermeabile. Insomma, in molti casi l’aver reciso il legame tra viticoltura e ambiente, tra vino e natura, ha di fatto generato dei danni difficili da risanare.

Basti pensare che per formare 3 cm di terra fertile ci vogliono circa 10 secoli. C’è però una speranza, un’importante inversione di tendenza a cui si sta assistendo, testimoniato da una crescente superficie di terreni coltivati in biologico. Con molti produttori che hanno fatto da tempo una scelta precisa, che va nel senso della drastica riduzione o totale cancellazione della chimica di sintesi. A loro dobbiamo guardare con fiducia e a loro dovrebbe guardare la politica con più attenzione.

Fonte: La Repubblica di Carlo Petrini del 25-02-2024