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Gen 19 2019

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MOLTA MENO CARNE NELLA DIETA PER SALVARE IL PIANETA

La conclusione è contenuta in uno studio pubblicato su Lancet nel quale si spiega come boom demografico e riscaldamento globale richiedano un drastico cambio delle nostre abitudini alimentari

Attorno alle diete ruota un’intera industria. La maggior parte dei suoi prodotti è pensata per aiutare la gente a perdere peso, rafforzare i muscoli o vivere più a lungo.

Ma con l’aumentare della popolazione mondiale gli scienziati si stanno dando da fare ora per concepire una dieta in grado di sfamare entro il 2050 circa 10 miliardi di persone.

Un nuovo studio, pubblicato sulla rivista medica The Lancet, ritiene di aver centrato l’obiettivo. Raccomanda una dieta a base di vegetali con piccoli e occasionali “strappi” a favore di carne, latticini e zuccheri. Il documento è stato realizzato da 30 scienziati impegnati nel campo della nutrizione e delle politiche alimentari provenienti da tutto il mondo. Per tre anni hanno fatto una serie di valutazioni per stabilire delle raccomandazioni che i governi dovrebbero adottare per raccogliere la sfida di sfamare una popolazione mondiale in aumento.

Anche piccoli incrementi nel consumo di carne rossa e latticini renderebbero questo obiettivo difficile o impossibile da raggiungere“, spiega una sintesi dello studio.

Gli autori sono giunti alle loro conclusioni valutando i diversi effetti collaterali della produzione di cibo.

Hanno incluso le emissioni di gas serra, il consumo di acqua, l’azoto e il fosforo usati come fertilizzanti e i possibili danni subiti dalla biodiversità di un paese in caso di riconversione all’agricoltura intensiva. Riuscendo a gestire tutti questi fattori, il report conclude che le emissioni potrebbero essere ridotte a sufficienza e che potrebbe essere salvaguardato abbastanza suolo riuscendo comunque a sfamare la crescente popolazione mondiale.

Stando alle conclusioni dello studio, il consumo di carne e zucchero nel mondo dovrebbe diminuire del 50 percento. Chi mangerà meno carne e dove, varierà, spiega Jessica Fanzo, una delle autrici del report e professoressa di politiche alimentari ed etica presso la Johns Hopkins University. Il consumo di carne negli Stati Uniti, ad esempio, dovrebbe diminuire per fare posto a frutta e verdura. Altre nazioni che sono invece alle prese con carenze nutrizionali potrebbero incrementare la presenza di carne nelle loro diete nella misura del 3%. 

Se non prendiamo provvedimenti ci troveremo in gravi difficoltà“, dice Fanzo.

Le raccomandazioni affinché il consumo di carne venga ridotto non sono certo nuove. Lo scorso ottobre una ricerca pubblicata su Nature ha fissato delle linee guida simili. Di nuovo questo ultimo lavoro, spiega Fanzo, aggiunge come effettuare il cambiamento. Ciò che gli stessi autori definiscono la “Great Food Transformation” espone una serie di strategie che vanno dalla più banale, come il promuovere maggiore consapevolezza, alla più drastica, come l’eliminare la possibilità di scelta per i consumatori.

Credo che su base quotidiana per le persone sia difficile perché gli incentivi e le attuali strutture politiche non lo rendono agevole“, aggiunge Fanzo. Cambiare la destinazione dei sussidi per l’agricoltura, sottolinea il rapporto, è ad esempio un modo per ristrutturare il sistema alimentare. Cambierebbe i prezzi dei prodotti, fornendo un incentivo per i consumatori.

Se però un simile piano sia effettivamente in grado di affermarsi nel mondo è tutt’altra questione, ammette Fanzo.

Negli Stati Uniti tra produzione diretta e indotto “ci sono un milione di persone le cui vite sono legate all’industria casearia“, spiega Greg Miller, capo scienziato del U.S. National Dairy Council, l’agenzia per i prodotti lattiero-caseari. “Per raggiungere l’obiettivo avremmo bisogno di incentivi e politiche adeguate per rendere l’industria più sostenibile. Al momento servono sussidi per aggiornare le tecnologie“.

Non tutti gli esperti sono convinti però che una dieta a base di vegetali sarebbe una panacea per la sicurezza alimentare. Frank Mitloehner, zoologo della University of California, Davis, è convinto che l’associazione fatta normalmente tra la carne e le emissioni di gas climalteranti sia scorretta.

Ciò che mi preoccupa di più è che, se è vero che il bestiame ha un impatto, il rapporto ne fa la principale fonte. Il consumo di carburanti fossili è invece di gran lunga la causa principale delle emissioni“, dice Mitloehner.

Stando ai dati dell’agenzia ambientale statunitense EPA, bruciare fonti fossili nei trasporti o per produrre elettricità costituisce il grosso delle emissioni. L’agricoltura rappresenta invece il 9% e l’allevamento di bestiame circa il 4% di questo 9%.

Mitloehner contesta anche la metodologia usata dal gruppo di ricercatori per determinare la quantità di emissioni prodotte dal bestiame, sostenendo che nei conteggi è stato dato un peso eccessivo al metano.

Anche se le linee guida della dieta indicata dallo studio suscitano critiche, la sua spinta affinché vengano ridotti gli sprechi alimentari è invece accolta da ampi consensi.

Nei soli Stati Uniti la percentuale di cibo che finisce in discarica si aggira attorno al 30%. Strategie per ridurre gli avanzi vengono suggerite nel report tanto ai produttori quanto ai consumatori.

Migliori tecnologie per la conservazione e l’individuazione delle contaminazioni che fanno guastare gli alimenti aiuterebbero l’industria a ridurre la quantità di prodotto che viene buttata via.

Anche educare i consumatori avrebbe però una grande efficacia. Per quanto difficile possa sembrare, cambiare le proprie abitudini alimentari avrebbe anche dei grandi vantaggi economici. Kathryn Kellogg, autrice del libro “101 Ways to Go Zero Waste” (101 modi per produrre zero rifiuti, ndt) stima che la cifra mensile potrebbe aggirarsi attorno ai 250 dollari. “Esistono molti modi creativi per utilizzare il nostro cibo in modo da evitare sprechi e credo che molta gente semplicemente non li conosca“, dice Kellogg.

Tutte le azioni che raccomandiamo sono già realizzabili“, dice Fanzo. “Semplicemente non vengono applicate su larga scala“. Fonte: National Geographic, Sarah Gibbens, 18.01.2019

 

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