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Apr 06 2023

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PROTEZIONISMO INUTILE: L’AUMENTO DEL CONSUMO DI CARNE RICHIEDERÀ UN CAMBIAMENTO DELLA PRODUZIONE IN TUTTO IL MONDO

La messa al bando in Italia di ricerca e realizzazione (non al commercio) di cibi sintetici non serve a proteggere gli allevamenti. Piuttosto, dimostra una scarsa attenzione a quel che accade all’industria agroalimentare nel resto del pianeta

Lapresse

Fa parte del patrimonio gastronomico, e quindi culturale, italiano. Ce lo sentiamo dire per moltissimi cibi, per il vino, per la pizza, e naturalmente anche per la carne.

Ci viene ricordato sia nell’ennesima trasmissione o articolo sulla cucina o sulle tradizioni italiane, sia nell’ambito dell’agone politico. Magari in occasione di qualche polemica riguardante l’introduzione di un elemento nuovo, un’innovazione, quasi sempre dall’estero.

Alcuni mesi fa era il caso del Nutriscore, che secondo i suoi detrattori avrebbe danneggiato la nostra produzione agro-alimentare. Ora è il turno della carne sintetica, che il governo italiano, primo al mondo, si è affrettato a vietare, anche se il bando riguarda solo la produzione, non il commercio, grazie ai trattati europei cui dobbiamo sottostare (per fortuna).

E dire che, a differenza di quel che accade per esempio nell’ambito del vino, in realtà l’Italia non è ai primi posti né per produzione né per consumo di bistecche, arrosti, hamburger, salumi e affini.

Siamo intorno al quarantaduesimo posto per chili di carne mangiata a testa, circa settantacinque, dietro alla media dell’Unione europea (79,3 chili) e a Paesi con abitudini alimentari in fondo simili, come la Francia (più di ottanta chili a testa) e le mediterranee Grecia e Spagna (ottanta e centosei chili).

Questo ci fa capire quanto dietro a questa decisione ci siano non solo motivazioni di protezionismo del settore dell’allevamento, che del resto l’esecutivo non prova neanche a nascondere, ma anche una sorta di ansia e stress collettivo direttamente collegati al nostro lungo declino. Siamo fragili, sulla difensiva, davanti a ogni novità non vediamo nuove opportunità, ma occasioni di allarme, che fanno riemergere il timore, che ormai ci accompagna da decenni, di perdere qualcosa.

Cosa dovrebbero dire le aziende statunitensi? Gli americani consumano quasi centotrenta chili di carne a testa. E cosa dovrebbero dire in quei Paesi in cui il suo consumo è simbolo di riscatto, di crescita economica e sociale, come da noi negli anni Cinquanta e Sessanta, Paesi emergenti in cui, infatti, si sta diffondendo a ritmi sostenuti.

Basta guardare l’andamento della produzione mondiale, che è cresciuta in modo quasi ininterrotto in sessant’anni da circa settanta milioni di tonnellate a circa trecentoquaranta, un incremento che ha superato quello, comunque sostenuto, della popolazione.

Dati FAO e Onu, in milioni di tonnellate

È l’Asia che ha guidato questa crescita. Nei primi anni Sessanta solo un sesto della produzione avveniva in questo continente, mentre più del quaranta per cento aveva luogo in Europa, ora le proporzioni sono quasi esattamente invertite, con la fetta americana che rimane sopra il trenta per cento anche grazie all’America Latina.

Non si tratta solo dell’effetto del cambio di equilibrio demografico, ma soprattutto della crescita economica in primis della Cina e poi anche di numerose altre realtà dell’area.

Dati FAO e Onu, in milioni di tonnellate e in percentuale

Questo dato ci potrebbe fare capire da un lato che non è la nostra industria agroalimentare a essere al centro del mondo, almeno in questo ambito, ma soprattutto che questo enorme incremento dei consumi non può passare in cavalleria senza avere un impatto corrispondente sull’ambiente, sull’economia e sulla società.

Il caso del maiale, inoltre, ci ricorda come questo tipo di produzione non sia immune da imprevisti, se così vogliamo chiamarli. Se ne è parlato solo di sfuggita in Occidente, ma alla vigilia del Covid la Cina è stata colpita dalla peste suina africana, che ha portato alla perdita, secondo stime ufficiose, di circa metà di questi animali per la cui carne gli abitanti del Paese vanno matti. Anche il calo produttivo “ufficiale”, da 57,1 a 41,5 milioni di tonnellate, è ben visibile.

Dati FAO e Onu, in milioni di tonnellate

Episodi simili sono destinati a ripetersi, così come è destinata a crescere l’impronta ecologica degli allevamenti – considerando che non solo Cina, Brasile e altri Paesi emergenti ormai a medio reddito sono protagonisti dell’aumento del consumo di carne, ma anche quelli più poveri. Sono quelli in cui, nonostante in valore assoluto le cifre siano ancora piccole, si sono registrati negli ultimi trent’anni incrementi decisi, superiori alla media mondiale.

In questo lasso di tempo è raddoppiata la produzione nei Paesi a basso reddito, e, anzi, in quelli definiti non solo a basso reddito, ma anche in una situazione di deficit alimentare l’aumento è stato ancora maggiore, del 155,9 per cento. Parliamo di realtà come il Ciad, la Guinea, la Liberia, il Nepal, il Bangladesh, ecc.

Ed è stata soprattutto la carne di pollo a vedere tassi di crescita a tre cifre, con incrementi anche di cinque volte in questi trent’anni.

Dati FAO e Onu

Gran parte di questi aumenti è stato dovuto al semplice ampliamento demografico, in Africa e in India i consumi di carne sono ancora a livelli molto bassi, diciassette e cinque chilogrammi pro capite, contro, per esempio, i 63,7 chili della Cina.

Dati FAO e Onu, dati in kg

Ma cosa succederà quando la nuova giovane borghesia nigeriana vorrà mangiare non tanto il filetto, ma più pollo fritto? E quando i nuovi ricchi di Mumbai vorranno provare più spesso gli spezzatini di montone? L’incremento della produzione di carne a quel punto continuerà, alimentata magari non tanto dalla crescita demografica, che si sta affievolendo, ma dal cambiamento dei consumi.

Cosa diremo loro? Che un etto di pollo produce 1,82 chili di anidride carbonica equivalente, undici volte in più del riso che ora sono abituati a mangiare ogni giorno? Con che diritto potremo fare loro la morale?

Il miglioramento delle condizioni economiche si accompagnerà all’aumento del consumo di ogni tipo di carne, sarà fatale, è quello che è accaduto all’Occidente decenni fa, senza che nessuno ci abbia fatto notare che si trattava qualcosa di sbagliato. Ora non possiamo dire loro che non possono mangiare carne per consentire a noi di continuare a farlo.

Allora dobbiamo porci il problema di coniugare il diritto delle persone di elevare il proprio tenore di vita, alternando sempre più spesso riso e verdure all’hamburger, se lo desiderano, e il dovere di proteggere l’ambiente.

Da un lato non sarà possibile per tutti gli abitanti della Terra consumare tanta carne quanto ognuno degli europei e americani, dall’altro non diventeremo mai tutti vegetariani, dobbiamo farcene una ragione.

Soluzioni innovative saranno necessarie, ma forse in un Paese strutturalmente vecchio come l’Italia dovremo aspettare le nuove generazioni perché possa essere accettato che accanto alla fiorentina con osso originale, da Chianina allevata nei pascoli, vi sia il panino con hamburger sintetico.   Fonte: Linkiesta, Economia, Gianni Balduzzi, 05.04.2023

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