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Nov 29 2019

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“PIATTI PRONTI E DELIVERY, COSÍ MUORE LA CUCINA ITALIANA”

Lo storico della gastronomia Alberto Capatti: dobbiamo riappropriarci dei processi dei piatti che mangiamo. I giovani si ribellino

Contro le città che a causa del turismo mordi e fuggi diventano “all you can eat cities” (se ne è discusso di recente al festival Nutrimenti) e a favore della cucina di casa come “rivoluzione possibile del cibo quotidiano”: è la posizione di Alberto Capatti, noto storico della gastronomia italiana, che sempre più sta facendo sentire la sua voce a salvaguardia del fare cucina.
Numerosi i titoli di Capatti, da decenni studioso dell’alimentazione e della gastronomia, che lo rendono un’autorità nel settore: è stato il primo rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, già direttore del mensile La Gola e della rivista di Slow Food, oggi è anche membro del comitato direttivo dell’Institut Européen d’Histoire de l’Alimentation e del comitato scientifico di CasArtusi.

Proprio a proposito di Pellegrino Artusi, di cui ci si prepara a celebrare il bicentenario della nascita il prossimo agosto, tira in ballo l’arte di mangiar bene, sottotitolo del best seller “La scienza in cucina” dell’autore di Forlimpopoli.

L’arte della cucina va risollevata”, avverte lo storico. “Non possiamo trascurare – dice – i problemi vitali di una cucina di casa che oggi è debole e condizionata dalla cucina totale di delivery e supermercati che offrono piatti e cibi cucinati”.

Non sembri questione di poco conto. Quello della cucina già cucinata, secondo Capatti, è un “sistema di nutrimento industriale che marginalizzerà tutte le forme di cucina domestica” e costituisce “un punto di crisi, un punto della nostra crisi” ecco perché “ci servono vie per riformulare la cultura del cibo che sia un vissuto culturale e non un piatto offerto”.
Se a qualcuno può sembrare una battaglia di retroguardia, si consideri invece che “La storia della cucina è storia contemporanea, non antica e ha contribuito a creare una identità, viva perché in evoluzione”.

Contro le città che a causa del turismo mordi e fuggi diventano “all you can eat cities” (se ne è discusso di recente al festival Nutrimenti) e a favore della cucina di casa come “rivoluzione possibile del cibo quotidiano”: è la posizione di Alberto Capatti, noto storico della gastronomia italiana, che sempre più sta facendo sentire la sua voce a salvaguardia del fare cucina.
Numerosi i titoli di Capatti, da decenni studioso dell’alimentazione e della gastronomia, che lo rendono un’autorità nel settore: è stato il primo rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, già direttore del mensile La Gola e della rivista di Slow Food, oggi è anche membro del comitato direttivo dell’Institut Européen d’Histoire de l’Alimentation e del comitato scientifico di CasArtusi.
I ricettari sono strumenti didattico che i lettori modificano. Quando tutti i contadini sono diventati operai e hanno cominciato a comprare la carne, hanno anche cominciato a modificare l’Artusi e le letture sono sempre progressive, di riformulazione. Oggigiorno l’originale ci è lontanissimo ma lo stampiamo proprio per questo. A testimonianza di un processo evolutivo.

Ne è prova il fatto che Artusi – anche se editorialmente vive ancora, attraverso l’edizione di Giunti che non pone elementi interpretativi – ha anche  numerose rivisitazioni, come il “Nuovo Artusi” (Feltrinelli), “Artusi Remix” (di Donpasta) o il recentissimo “Le Stories di #Artusi – ricette e miracoli dell’uomo che ha rivoluzionato la cucina degli italiani” di Luisanna Messeri e Angela Simonelli (Giunti).

Preservare dunque il saper fare vuol dire preservare la nostra cultura e identità. Insomma, rivolta contro le cucine cucinate, è doverosa perché esentano dalla cultura, diventano è un modo per cui un piatto (carbonara, lasagna, che va nel microonde) arriva a tavola senza che l’individuo sia presente. Un po’ come la catena di montaggio toglie consapevolezza e aliena dall’insieme del prodotto finito, così anche in cucina la persona non è più parte del processo creativo del piatto.

Per esempio la pizza ha preso la strada della semplicità totale: “Si entra in una grande catena ed ecco. Senza sapere nulla della sua storia e cultura. Non entro nel merito degli ingredienti usati – dice il prof – ma discuto sul messaggio”.

Dobbiamo reagire, dobbiamo fare la rivoluzione e riappropriarci del processo creativo.
Tutta una sequela generazionale si è disinvestita del cucinare: “Osserviamo passivamente l’offerta del pranzo non avendo idea dell’origine degli ingredienti. I giovani devono essere i primi a ribellarsi ed essere sensibili. Tutti, ragazzi e ragazze, devono essere all’interno del processo formativo perché non è più appannaggio femminile”.

Questa disinvestitura comunque è un processo di lunga data. “Già nel 1902 Tamburini Ferraris nel suo ‘Come posso mangiar bene’, ricettario in piena epoca artusiana, da milanese dà ai milanesi la ricetta. Spiega come condiretortellini già pronti. O Ada Boni spiega ricette da fare con il dado. Quindi è un processo che ha radici profonde. Ma lo storico deve guidare verso la riappropriazione del cibo”. Fonte: La Repubblica, Eleonora Cozzella, 29.11.2019

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