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Dic 29 2020

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GENERAZIONE BIO: SE CARNE DEV’ESSERE, CHE SIA BUONA IN TUTTI I SENSI

La filiera della carne sta attraversando una fase particolare, caratterizzata da grandi cambiamenti e con consumatori sempre più consapevoli, che spingono la filiera a rispettare valori come sostenibilità e qualità, di tutta la catena di produzione

Quello che una volta era un frigorifero ripieno di bocconi di carne in vaschette di polistirolo più o meno anonime, offre adesso grandi alternative. Sono aumentate le indicazioni di provenienza, per cui si trova più o meno ovunque la Fassona piemontese, la Chianina Toscana, la Marchigiana e poi i tagli esteri più noti, dal Black angus scozzese alla Manzetta prussiana.

Oltre la provenienza, che non sempre garantisce qualità, troviamo sui pacchetti altri loghi: Consorzi di valorizzazione, da Coalvi a Coldiretti, marchi del distributore, Terre d’Italia, Dintorni e sapori, Fior Fiore. Poi viene la parte verde dei frigoriferi, quella che indica la carne certificata biologica e anche qui, il nostro povero cliente a domandarsi che fare. Tanta quella bianca, di pollo o tacchino; un po’ più rara quella rossa, di manzo e maiale. Ci sono delle ragioni storiche e più semplicemente di prezzo. Ma non disperdiamo le energie e i lettori e andiamo avanti per gradi.

La FAO prevede che il consumo di carne nel 2020 diminuisca di quasi il 2% a causa della pandemia. Il mercato nostrano della carne, invece secondo l’ultimo rapporto Ismea, l’ente che studia i comparti agroalimentari italiani, patisce una forte contrazione della produzione di carne bovina, che tocca il 13,6% (nei primi sei mesi dell’anno), una riduzione di quella suina, intorno al 20% e una tenuta delle carni di pollo che rimane ai livelli del 2019. Diversa e opposta la situazione nel mercato più ristretto delle carni di qualità e certificate. Quelle che rispettano i disciplinari bio, ad esempio hanno avuto una crescita complessiva rilevante, del 66% rispetto all’anno precedente, sempre secondo ISMEA.

Quali sono le ragioni di questi spostamenti di consumi? Deviazioni della società del benessere e dell’opulenza, direbbero alcuni. Altri, più saggiamente sostengono che sia il segno di una società che sta cambiando, soprattutto nella fascia più giovane della popolazione. La carne sta diventato un prodotto da rispettare e da mangiare saltuariamente, anche per contenerne l’impatto ambientale e per una crescita nella diffusione della dieta vegetariana. Scelte che vanno di pari passo a nuovi concetti come il benessere animale che si pone l’obiettivo di far rispettare quelle bestie che da secoli ci forniscono il sostentamento.

Il sistema biologico in agricoltura nasce e viene regolamentato in Europa dal 1991, anche se la sua origine può essere anticipata al 1940, quando due agronomi Pfeiffer e Howard, idearono un metodo innovativo di agricoltura organico-biologica, riprendendo le teorie del medico Steiner, sulle cui ricerche si fonda tutta la medicina omeopatica.

Il Bio è stato considerato inizialmente come un fenomeno per pochi adepti, prima vegani, vegetariani e cultori della scelta naturale. Con l’allargarsi di domanda e offerta e la discesa keynesiana dei prezzi, si è assistito all’allargamento della base, che ha portato dagli anni 2000 i prodotti bio sino nella grande distribuzione organizzata; prima con poche referenze, poi con interi reparti, togliendo mano a mano quel velo di lusso che si era creato nelle città, dietro ai prodotti con il suffisso bio. «Si comprava biologico per la minor presenza di residui chimici, adesso lo si fa per ridurre l’impatto e la sostenibilità produttiva sul pianeta», come ci racconta Paolo Carnemolla, segretario generale di Federbio, una delle più rilevanti associazioni di produttori che aderiscono al disciplinare biologico.

L’allargamento dei consumatori porta con se anche l’allargamento dei prodotti, così dalla frutta e la verdura, si arriva anche alla carne, «Quando facevamo promozione dei nostri prodotti nelle catene specializzate delle grandi città nei primi anni 2000 avevamo spesso contestazioni da parte di gruppi vegani e vegetariani, che mal tolleravano la presenza di proteine animali in questi luoghi», racconta Elena Pedrazzoli, che guida con la famiglia l’omonimo salumificio, che è tra i pochi che ha scelto di allevare e commercializzare maiali con certificazione Bio.

Una scelta difficile e non immediata, soprattutto per allevatori che sul finire degli anni 90 vedevano la propria stalla iperproduttiva e ipertecnologica, con lo stesso sguardo con cui l’ingegnere guarda la catena di produzione della Maserati. L’allevamento puntava alla quantità, perché il mercato chiedeva quantità e prezzo e gli allevatori erano consapevoli di dover sfruttare a pieno i loro fattori di produzione.

Ci hanno pensato le battaglie culturali di tanti, in primis Slow Food, che da Bra ha spinto per creare un’alternativa alla super-produzione con lo slogan Buono Pulito e Giusto, che raccoglie in maniera allargata l’eredità di chi pensava che mangiare sano poteva anche far bene al pianeta.

Il Biologico è divenuto oggi così un fenomeno di massa, con oltre 80.000 operatori del settore coinvolti e più di 2.000.000 ettari, certamente non più una produzione di nicchia, riservata ad un pubblico danaroso e selezionato.

Oggi i consumatori sono più spesso i millennials e giovanissimi, i compagni di Greta; sono loro i nuovi influencer del cibo che stanno spingendo le proprie famiglie, e tutto il sistema food a variare i propri schemi e offrire valori diversi. «Ormai anche i discount offrono linee bio a proprio marchio e puntano a far crescere la qualità e le garanzie dei propri prodotti pur con l’attenzione al prezzo», afferma sempre Federbio.

Le uova sono un esempio eclatante di questa tendenza. Fino a dieci anni fa nel supermercato sotto casa il nostro cliente delle prime righe si trovava qualche marca certificata bio e poche altre differenze nel packaging e nel logo. Adesso si rischia la confusione davanti alle tante scritte che ricoprono le scatole portauova: OGM free, No Antibiotici, Galline allevate a terra, Galline libere, Filiera certificata, a dimostrazione di come sono cambiate le scelte del mondo del marketing che oggi sfrutta le nuove richieste del mercato.

«Il consumatore sta cambiando le sue abitudini alimentari e sceglie il bio soprattutto nei segmenti come le carni povere, dove il differenziale di prezzo, seppur alto in termini percentuali, non ha un impatto molto forte in valore assoluto», ci racconta ancora Paolo Carnemolla. La carne costa poco di più ed è certificata per cui perché non comprarla? Così i consumi di questa proteina crescono molto di più degli altri, allontanando paure di sfruttamenti delle povere galline e la bassa percezione di qualità attribuita alla filiera.

«Le nuove tendenze spingono verso acquisti meno impulsivi; la scelta dal click di un catalogo on line ha infatti aumentato la consapevolezza di acquisto e sta accorciando la filiera», racconta Simone Santini, direttore marketing di Fileni, azienda leader nella produzione di carni bianche green in Italia. «La nostra è un’azienda storica, nata a Jesi nel 1978, che ha scelto nel corso degli anni di cambiare le modalità di allevamento da tradizionali a Bio. Perché lo facciamo? Perché ci crediamo, perché crediamo nell’ambiente in cui viviamo e nella qualità del suo territorio», per cui come dice il loro jingle «Scelgo bio».

Farlo significa, per una azienda di 450 milioni di euro di fatturato, svilupparsi tenendo presenti tutti i driver della sostenibilità, come viene citato nel Bilancio di Fileni, che da qualche anno esce insieme a quello redatto dai commercialisti. Così si cerca di far convivere la crescita del fatturato con l’aumento del riciclo, studiando packaging completamente compostabile e la riduzione degli scarti di produzione, attraverso l’uso di un digestore. Significa investire nel territorio marchigiano, che ospita l’azienda, cercando di offrire opportunità di lavoro ma anche proteggerlo, lavorando per ridurre l’impatto ambientale delle produzioni e le esternalità negative. «Cerchiamo di essere un’azienda attivista, che crede e lavora davvero e quotidianamente alla realizzazione dei propri obiettivi per essere sempre credibili agli occhi del cliente».

Dai polli ai maiali, una produzione residuale dal punto di vista biologico, che risente di notevoli difficoltà sotto il profilo della gestione del pascolo e dell’alimentazione e di una scelta di allevamento fortemente ancorata alla tradizione.

La famiglia Pedrazzoli invece ha voluto crederci e dal 1996 ha deciso di cambiare la sua già ottima azienda di allevamento suino da tradizionale a biologico. «Il passaggio è stato lungo e faticoso. Abbiamo dovuto ricostruire le filiere della distribuzione e la relazione con i clienti». Oggi dopo quasi 25 anni, l’azienda è completamente trasformata: tutti i maiali macellati sono allevanti internamente e nascono in azienda; viene garantita un’alimentazione mista tra pascolo e stalla. Il fatturato è arrivato a 25 milioni di euro l’anno e i prodotti sono esportati per il 60% fuori dall’Italia, soprattutto in Europa.

Pedrazzoli è anche una tra le poche aziende italiane che ha scelto di produrre anche salumi bio, contenuti in un incarto innovativo completamente compostabile. «Per la distribuzione abbiamo deciso di scartare la GDO, e andare sulle catene e i salumifici specializzati; ma anche con loro non è stato facile. Abbiamo dovuto far capire al negoziante che esisteva una differenza di prezzo e come differenziarci da competitor che spesso a differenza nostra comprano solo la carne e l’assemblano. Il consumatore va accompagnato; e l’unico modo per farlo è spiegare i valori delle nostre scelte e delle nostre strategie. Insomma, il nostro consumatore davanti al frigo comincia a capire la qualità intrinseca in un prodotto certificato ed è disposto ad accettare per questo, un livello di prezzo più alto, ma la storia gli va raccontata e anche bene.

E di questo è un esempio perfetto Sergio Capaldo, che dopo aver fondato La Granda, consorzio di valorizzazione della Fassona piemontese, ha saputo comprendere come dare valore ulteriore alla terra e ai suoi lavoratori e ha creato un nuovo marchio, L’agricoltura simbiotica, «che si pone come obiettivo di valorizzare la terra e la sua biodiversità e produrre così alimenti sani e naturali per gli animali che vi pascolano».

Il concetto è semplice e parte da un’agricoltura che tutela il suolo cercando di far ritornare quell’equilibrio che esiste in natura ma che la meccanizzazione e standardizzazione dei processi produttivi aveva quasi fatto dimenticare. «Bisogna lavorare sulla costruzione di un biotipo di qualità, con la corretta composizione microbica e di elementi naturali, per ridare la vera qualità al cibo che noi mangiamo, ma soprattutto benessere agli animali: dobbiamo guardare oltre il piatto, e pensare a quello che mangia la nostra carne. La mucca è un ruminante e quindi lasciamola ruminare». Sergio è un ostinato uomo di scienza, per cui le sue non sono enunciazioni di principio, ma ipotesi dimostrate con sperimentazioni sul campo e ricerca applicata.

Si parte con il diminuire le sostanze di sintesi, usate in agricoltura, sostituendole con composti naturali che possono favorire la risposta e il riequilibrio della flora e della fauna tipica, presente in ogni prato italiano.

Un progetto come questo è in grado di fornire una risposta per gli allevatori anche in termini di prezzo, restituendo una parte del loro valore aggiunto, normalmente disperso lungo la catena di distribuzione del prodotto.

«Fare agricoltura sostenibile è dare anche la giusta remunerazione all’agricoltore, che non può altrimenti sostenere un costo di produzione maggiore», dice ancora Sergio Capaldo. È necessario sostenere gli agricoltori in questo cambiamento, per dimostrargli che dopo un periodo di investimento iniziale, seguirà una riduzione dei costi del processo e una crescita dei ricavi.

Quindi facciamo concentrare il nostro cliente durante il suo girovagare negli scaffali, perché la sua scelta è davvero importante e speriamo non dipenda solo dal prezzo. Fonte: linkiesta, Luca Milanetto, 29.12.2020

 

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