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Mag 09 2022

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L’INTERVISTA. FABIO CICONTE E IL TEMPO DELLE MELE (IMPERFETTE)

Saggista e direttore dell’associazione ecologista Terra, nel suo ultimo libro racconta la corsa all’agricoltura “brevettata”. Che si è trasformata in una grande catena di franchising

Come nell’Antico Testamento, anche in questa storia di cibo e brevetti, di contadini e colossi biotech, il peccato originale ha a che fare con un albero di mele. La pianta non cresce nell’Eden, ma nella Virginia di inizio Novecento. Il suo proprietario è ignaro del tesoro che ha messo radici sul suo terreno, sa solo che produce ottimi frutti, mele gialle e saporitissime. Ne invia alcune al Vivaio Stark, in Louisiana, che ha indetto un concorso. Dopo qualche tempo a visionare il melo si presenta Paul Stark in persona. Compra per cinquemila dollari la pianta e le fa costruire intorno una gabbia, perché nessuno possa clonarla, con l’innesto, a partire da uno dei suoi rami.

Tutte le mele della varietà Golden delicious che mangiamo oggi crescono su alberi clonati (e dunque geneticamente identici) da quell’albero in Virginia. “Il melo in gabbia è il simbolo dei brevetti sul cibo” spiega Fabio Ciconte, saggista e direttore dell’associazione ambientalista Terra, che sull’argomento ha appena pubblicato con Laterza il saggio Chi possiede i frutti della terra. “La prima legge sui brevetti di organismi viventi fu scritta negli Stati Uniti nel 1930 proprio perché la lobby degli orticoltori voleva che tutte le varietà la cui propagazione avviene per via asessuata (cioè con l’innesto) potessero essere brevettabili”.

È passato quasi un secolo, quali sono gli effetti di quella e delle altre leggi sul cibo?

Che è andata persa il 75 per cento della biodiversità coltivata. Siamo andati verso un modello di produzione agricola che si basa sull’uniformità: per rimanere alle mele, tutti frutti dello stesso colore e delle stesse dimensioni. Ma questo è esattamente il contrario della biodiversità. E tuttavia c’è una nuova tendenza che si sta affermando e che trovo ancora più grave“.

Di cosa si tratta?

Sono i cosiddetti prodotti club, gli esempi principali sono la mela pink lady, il kiwi giallo, o l’uva senza semi: le aziende che mettono sul mercato queste nuove varietà ne detengono la proprietà intellettuale e su quella mettono anche il loro marchio, quindi una doppia protezione. Sono loro a decidere chi può coltivare quella varietà e in quale modo deve essere coltivata. Ma soprattutto il prodotto deve tornare indietro alla casa madre. Per esempio gli agricoltori dell’Agro Pontino che coltivano il kiwi giallo non possono commercializzarlo autonomamente. Chi coltiva la terra così non determina più niente, non ha alcun tipo di potere contrattuale. L’agricoltura viene trasformata in una grande catena di franchising“.

Non c’è chi si ribella?

Sta accadendo in Puglia, dove alcuni agricoltori stanno combattendo nei tribunali perché vorrebbero coltivare l’uva senza semi, molto richiesta dal mercato, ma per farlo devono prendere queste varietà da specifiche compagnie che poi impongono l’uva sia venduta con il loro marchio e non con quello delle singole aziende agricole. Il risultato è una vertenza giudiziaria con tanto di analisi del Dna per capire se le varietà in questione siano state trafugate“.

Come è nata l’idea di questo libro?

Negli ultimi vent’anni mi sono occupato di tutte le filiere alimentari, analizzandole sia in termini sociali, per esempio studiando il caporalato, che in termini ambientali. E ricorreva sempre questo 75 per cento di biodiversità perduta, una cifra che stava finendo per annoiarmi, nonostante io fossi del settore. E allora ho voluto capire cosa si nasconde dietro quel 75 per cento“.

Cosa ha scoperto?

Per esempio che una parte “fortunata” di quel 75 per cento è stata messa in una delle banche del germoplasma che ci sono in giro per il mondo. Nel libro racconto il caso di quella che sorge alle Svalbard, nel Circolo polare artico, una operazione mirabolante ma non priva di criticità. Ma racconto anche il caso della banca del germoplasma di Bari, una delle più importanti al mondo e che però versa in pessime condizioni: conserva più di 50 mila varietà di specie in una sorta di prefabbricato con un budget annuale di 40 mila euro. Alle Svalbard, solo per adattare il sito hanno speso 20 milioni di euro“.

Rimane il 25 per cento di varietà che non abbiamo perso. In che mani sono?

Sono controllate dalle grandi aziende sementiere e vivaistiche. Come quelle che producono i più famosi marchi di mele che troviamo sugli scaffali“.

Ma queste aziende e gli agricoltori che lavorano per loro non sono preoccupati dalla perdita di biodiversità?
Ho girato in lungo e in largo le campagne italiane ed europee: gli agricoltori che sono dentro questi mercati sono contenti perché riescono a guadagnare quel centesimo in più che fa la differenza. Ma chi non accetta di produrre quel tipo di frutta, viene sostanzialmente estromesso dal mercato“.

Al di là delle questioni di principio, perché la biodiversità serve anche in agricoltura?

Se a essere coltivate sono solo poche varietà, per di più con l’illusione della perfezione di forma e colore, ci si rende molto più vulnerabili all’insorgere di eventuali agenti patogeni o ai cambiamenti climatici. In un Paese come il nostro, con duemila eventi estremi all’anno, la singola pianta non può produrre sempre frutti perfetti. Basta una grandinata perché le mele siano macchiate e vengano estromesse dal mercato. In Emilia Romagna la produzione di pere sta sparendo per questo motivo“.

Ma quindi meglio tornare all’antico, quando i nostri nonni raccoglievano frutta magari saporitissima ma bruttina, e certamente non in quantità industriali?

Non penso assolutamente che si debba tornare all’agricoltura di sussistenza, saremmo fuori dal mondo. Ma credo anche che si possa indurre i mercati a cambiare. In Europa basterebbe abolire del tutto la norma sulla calibrazione dei prodotti, che indica cioè in che categoria classificare frutta e verdura a seconda di forma e dimensioni. Qualche anno fa era stata ritoccata in quanto palesemente non applicabile ad alcune varietà, come la carota o l’aglio. Ma resta in vigore su dieci varietà che però in Europa rappresentano il 75 per cento del mercato“.   Fonte: la Repubblica, Cultura, Luca Fraioli, 09.05.2022

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