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Feb 08 2021

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ESPERIENZE: PERCHÉ VALE LA PENA SPENDERE TANTI SOLDI PER ANDARE IN UN RISTORANTE “GOURMET”?

Otto principali critiche e qualche argomento di riflessione, per scoprire tutto il bello di varcare la soglia di uno di questi locali d’eccellenza, approcciarvi all’alta cucina e lasciarvi guidare dai grandi chef, almeno una volta nella vita

  1. L’esperienza, la narrazione contro la concretezza di un buon pasto senza fronzoli

Un ristorante cosiddetto gourmet non è solo un buon pasto in un luogo curato, è un locale che ambisce a offrire un’esperienza al cliente, fatta di tanti elementi che ruotano attorno al piatto e che rendono quelle ore meritevoli di venir vissute e raccontate agli amici. La narrazione degli chef, il racconto della loro idea di cucina, persino velleità da artista da parte di alcuni cuochi, creano una sorta di repulsione in molti che vedono in questi orpelli intellettualoidi quanto di più lontano ci possa essere dalla semplicità appagante di un buon pasto ben cucinato e consumato in spensieratezza.

Abbiamo forse la pretesa di possedere una confidenza totale col cibo, attraverso il linguaggio di sapori immediatamente riconoscibili. Ma siamo sicuri di essercela meritata questa confidenza? Conosciamo davvero ciò che finisce nel piatto? Ingredienti, cotture, ricette, preparazioni. Siamo così sicuri che si possa soprassedere sulla conoscenza, lasciandoci guidare solo dal palato?

Probabilmente sì, si può, se si vuole galleggiare nel mare della piacevolezza e con orizzonti confortevoli e familiari.

Ma se vogliamo approfondire, andare ‘dietro al quadro’, conoscere, capire, allora forse non è così strano o troppo gravoso farsi guidare da chef professionisti con anni di esperienza alle spalle tali da renderli vere guide gastronomiche, imprenditori certo, con un ego spesso non indifferente, vero anche questo, ma che si sono conquistati sul terreno stima di critica, clienti e colleghi. La narrazione allora a quel punto non è (non sempre) pura operazione di marketing, ma sincera condivisione di un percorso di esperienze e conoscenze. Perché quel piatto, da dove nasce, quale percorso ha condotto alla scelta di quegli ingredienti abbinati in quel modo e con quelle particolari tecniche di cottura. C’è solo da imparare, oltre che gustare. E forse ascoltando e imparando si gusta meglio, con più consapevolezza.

  1. L’alta cucina è rivolta a un’élite e non potrà mai coinvolgere il grande pubblico

Da Escoffier in poi, ma anche prima, i cuochi hanno sollazzato innanzitutto il palato di un’élite, è innegabile. Difficilmente il popolo era di casa al Savoy di Londra o al Ritz di Parigi dove Escoffier ha lavorato per anni. Ma al tempo stesso i grandi cuochi hanno fatto cultura gastronomica e di questa tutti possono appropriarsi in tempi e modi diversi. La ricerca del gusto, nei decenni, a braccetto con l’alleggerimento di condimenti e salse, assieme a cotture rapide, principi culminati nella nouvelle cuisine, in fondo non sono altro che il percorso di una gastronomia che oggi, nella società del benessere, punta a sapore e salubrità.

La concentrazione sull’ingrediente, in una cucina del mercato che da Bocuse in poi è possibilmente di stagione, non porta solo a portate sopraffine, ha come ‘indotto’ culturale l’idea di scegliere prodotti più economici, più freschi, facilmente reperibili e al massimo del loro sapore.

  1. Il prezzo alto, primo ostacolo da superare

Quanto all’aspetto economico c’è poco da dire, indipendente dal potere di acquisto del singolo, si tratta di un piccolo investimento, forse anche velleitario, ma comunque impegnativo e fuori dalla norma.

Non più però di quanto lo possano essere tanti altri piccoli sfizi che, almeno una volta nella vita, ci si può togliere: quel cellulare ultima versione, il maglioncino in cashmere per Natale, o l’auto accessoriata da sfoggiare con gli amici. Oltre al portafoglio occorre anche una leva motivazionale: la curiosità non preconcetta, se non un accenno di passione, per voler provare un grande ristorante. Se la leggenda dell’operaio Renault che risparmia per potersi concedere almeno una volta nella vita un ristorante con tre stelle Michelin probabilmente rimane un divertente aneddoto al limite del verosimile, è comunque indice di un clima culturale, quello francese, con un occhio di riguardo verso la ristorazione.

Noi italiani abbiamo una cucina di casa, o tradizionale/regionale, talmente variegata, buona e forte che in molti si sviluppa un senso critico (a volte troppo critico) quando a cucinare non è la mamma o la nonna. Oltralpe invece sembrano distinguere più nettamente gli ambiti: ristoranti gastronomici da una parte e cucina casalinga dall’altra. I primi hanno una forte identità nei confronti della quale c’è rispetto, identità costruita a volte con secoli di vita alle spalle. Tour d’Argent, Grand Véfour, sono locali di Parigi con oltre duecento anni di pranzi e cene serviti a teste coronate o a semplici cittadini che volevano festeggiare una ricorrenza personale. Nella sola capitale francese si contano ben 49 ristoranti con oltre un secolo di vita (come riporta anche Maurizio Campiverdi nel suo enciclopedico “Tre stelle Michelin” edito da Maretti).

Occorre poi distinguere, e non sempre è facile farlo, tra ciò che è costoso e ciò che è caro. Nel primo caso può valerne la pena, nel secondo stiamo sprecando tempo e soldi.

Senza complicate analisi economiche qualche escamotage per permettersi uno di questi locali senza dissanguarsi esiste.

Innanzitutto preferire uno dei menu degustazione rispetto alla scelta di singoli piatti à la carte. Quasi sempre si risparmia. Oppure preferire alla scansione italiana del pasto, antipasto/primo/secondo/dessert, quella più diffusa all’estero, dove i primi non vengono spesso indicati con una sezione a parte, e preferire un pasto di due o tre portate al massimo.

Altra possibilità è quella del pranzo: molti locali hanno una formula a pranzo più leggera per il portafoglio, che consente comunque di avvicinarsi alla cucina di quello chef e assaporare l’atmosfera di ambiente e servizio.

  1. Si mangia poco e si spende tanto

L’annosa questione delle porzioni risicate acquista credibilità in funzione di quanto viene ripetuta, come un tormentone, ma poi analizzata concretamente si svuota subito. Partiamo dalla nouvelle cuisine, probabilmente una delle correnti gastronomiche che più hanno ispirato i contemporanei ristoranti gourmet. È da lì che nasce il (pre)giudizio. L’estrema cura estetica dei piatti, la cura del dettaglio che a volte sembra orpello (ma dovrebbe essere sempre funzionale all’architettura gustativa e non solo all’estetica del piatto) ha cristallizzato l’idea che quelle piccole porzioni siano davvero poca cosa per poterci sfamare, ma abbastanza care per poterci svenare. Andiamo con ordine. La nouvelle cuisine ha avuto due genitori che l’hanno tenuta a battesimo, i critici Gault e Millau, un manipolo di chef pionieri di questo nuovo corso in cucina e un vero e proprio elenco di comandamenti ispiratori. In nessuno di questi principi troverete mai l’indicazione di ridurre ai minimi termini le dimensioni delle portate. Quelle micro-porzioni, che si perdono ancora di più in enormi piatti di design, in realtà sono spesso parti di lunghi menu degustazione composti almeno di 5-6 passaggi. La cerimonia di un pasto presso un ristorante gourmet prevede anche passaggi non previsti dal menu: gli amuse bouche, il benvenuto dalla cucina, tanti piccoli stuzzichini, prima ancora dell’antipasto. Prima del dolce non è insolito che venga offerto un pre-dessert defatigante e rinfrescante rispetto alle portate salate appena terminate. E con il caffè non si smette di manducare, perché qualche piccolo dolcetto di accompagnamento c’è quasi sempre, la cosiddetta piccola pasticceria. Tornando all’immagine incriminata di prima, quella della mini porzione, occorre dire che una deriva minimalista della nouvelle cuisine, minoritaria, ha portato ad eccessi di quel tipo ma in pochi casi, fortunatamente. Quel mini piatto potrebbe essere un amuse bouche scambiato per una portata o far parte di un percorso degustazione come abbiamo visto. Se è presente in carta, ordinato fuori dal menu degustazione, pur avendo lo stesso nome normalmente ha una dimensione, talvolta persino una composizione (con qualche contorno aggiunto ad esempio) che lo rendono diverso nella forma, nella sostanza e nelle dimensioni. Insomma, il pericolo di uscirne affamati è scongiurato e chi scrive potrebbe riportare un aneddoto personale a tal proposito: anni fa in visita in un tempio della gastronomia francese, il Ristorante Paul Bocuse nei pressi di Lione, chiesi oltre al menu degustazione di poter ordinare anche un altro piatto, da condividere col mio commensale, nella foga di voler assaggiare più cose possibili. François Pipala, importante figura a capo della sala premiato anche come MOF (Meilleur Ouvrier de France), con un sorriso sornione e quasi paterno ci fece capire che il degustazione sarebbe stato più che sufficiente. Seguimmo il consiglio, uscimmo satolli.

  1. Il servizio di sala che incombe

Il cameriere col papillon e lo sguardo accigliato è l’immagine (ormai un po’ stereotipata) di un personale di sala assai formale e piantonato come un carabiniere dietro la sedia, che con una certa aria di sussiego è lì, pronto a riempire i calici ma anche ad osservare con sguardo attento come vi muovete, come usate le posate e dove osate posizionare i gomiti che in quel tipo di ristorante diventano la parte più imbarazzante del busto. Situazioni del genere ormai non si verificano quasi più, per fortuna le cose funzionano diversamente: aspettatevi di non dover mai toccare la bottiglia del vino (nei locali con tanto personale e con un’attenzione al tavolo) ma al tempo stesso rilassatevi e godetevi il pasto. La sala, il servizio, sono sempre più al centro dell’attenzione nei dibattiti sui ristoranti. Anche come contrappeso all’eco mediatica della professione dello chef, il focus viene giustamente riportato su maître e camerieri, il fronte con il cliente, l’anello di congiunzione tra fuochi e tavoli. Sono coloro che non si limitano a portare i piatti, condividono con la brigata la creazione di un menu, conoscono non solo ingredienti ma fasi di preparazioni di un piatto, per rispondere alle domande del cliente. Nei locali gourmet, dove si presta cura al servizio di sala, questo aspetto è tutt’altro che secondario rispetto alla cucina. È una cura del cliente intesa nel senso più flessibile e personalizzato, perché parte dalla capacità di osservare ogni singolo tavolo, ben sapendo che ogni tavolo è diverso dall’altro, per entrare in empatia col cliente: ci sarà chi vorrà sapere tutto e magari poter fare anche un giro in cucina, e ci sarà invece chi vorrà godersi la cena e la compagnia al tavolo senza troppe chiacchiere. Il bravo cameriere sa prendere le misure, sa prendersi cura senza far pesare la propria presenza ma al tempo stesso senza essere latitante al tavolo. Capacità di osservazione, conoscenza ed empatia, la trilogia di competenze che rendono il servizio di sala uno degli ingredienti del successo di un locale. Lasciatevi osservare, lasciatevi coccolare.

  1. L’etichetta e la formalità nell’abbigliamento

Un ristorante gourmet è spesso collocato all’interno di un hotel di lusso, ha una bella vista e comunque è in un luogo curato, con sala e arredi di design. Insomma, è anche un bel luogo nel quale l’abbigliamento dovrebbe essere in sintonia con l’ambiente. Ma non occorre per forza tirare fuori l’abito da sera. È passato il tempo in cui senza cravatta non si poteva più accedere alla Scala, e così pure per i ristoranti gourmet lo smart casual racchiude ormai una certa contemporanea libertà nel vestirsi. Qualche raccomandazione rimane: no pantaloni corti e scarpe aperte, ma per il resto liberi tutti, o quasi. Certo, il piacere di vestirsi in maniera formale, magari in ristoranti con una grande storia alle spalle, per rispetto di questa storia, fortunatamente non è ancora vietato. Ma l’etichetta di un tempo è sparita, persino nella sala il concetto di mise en place ha declinazioni contemporanee che non contemplano necessariamente lunghe tovaglie di lino, immacolate e impeccabilmente stirate al tavolo.

Runner o tavole ‘nude’ (magari di legno pregiato e con oggetti di design ad arredare il vuoto lasciato dal tessuto scomparso) prendono piede anche in ristoranti da tre stelle Michelin.

Per cui non rimane che rilassarsi e godersi il pasto senza troppe rigidità e poi ricordatevi che farvi sentire a proprio agio è, o dovrebbe essere, uno degli obiettivi del ristorante nel suo complesso, per rendere piacevolmente memorabile quell’esperienza e farvi uscire dal locale con la voglia di tornarci.

  1. Lo chef star non sta in cucina

È innegabile, molti chef sono diventati vere star televisive, del web e spesso spopolano in libreria con pubblicazioni che si susseguono numerose quasi quanto i piatti che escono dalle loro cucine. Questo attira un nuovo pubblico verso i ristoranti, un pubblico incuriosito dalla cucina, sicuramente, ma che viene spinto verso quel locale dalla fama dello chef. E se poi una volta seduti al tavolo e dopo aver ordinato si scopre che lo chef oggi in cucina non c’è? Delusione? Sì, se lo scopo di quella visita era incontrare il personaggio (e magari portarsi a casa un selfie o un menu firmato). Sgombrando il campo dal culto della personalità, se si vuole scoprire la cucina di quel cuoco, la sua presenza fisica al momento della vostra visita potrebbe anche essere ininfluente.

Questi professionisti spesso hanno abbandonato la loro postazione davanti a fuochi e padelle, sono imprenditori oltre che cuochi, al massimo stanno al pass per supervisionare il piatto prima che arrivi sul vostro tavolo. Alla domanda su chi cucinasse quando lui non era presente al ristorante, Bocuse rispose: le stesse persone che cucinano quando ci sono io!

Il messaggio è chiaro: lo chef, soprattutto se noto e con attività e insegne diversificate, è come un amministratore delegato ma soprattutto è un insegnante, un maestro. È colui che sa e sa trasmettere, e lo sa fare talmente bene che, come in un imprinting, il suo stile diventa lo stile della sua brigata, a partire dalla figura a lui più vicina, quella del sous-chef. Una brigata che è come il pilota automatico di un aereo, una volta decollati c’è sempre un comandante che ha la guida ma la rotta è già segnata.

  1. Il ristorante gourmet non è un ‘vero’ ristorante

Entrare in un ristorante gourmet, oggi più che mai, a partire dall’ondata della creatività proveniente dalla cucina spagnola e poi da quella nord europea, è sempre più un’esperienza che stravolge i canoni di un pranzo o una cena fuori casa.

Locali in cui non solo si sperimentano sapori e accostamenti mai provati, e difficilmente sperimentabili nella quotidianità. Ma anche luoghi dove veder sfoggiare tecniche e tecnologie innovative che trasformano l’aspetto degli alimenti. Sferificazioni, azoto liquido, polveri, estrazioni, spume, arie sono tutti fuochi d’artificio (non fini a se stessi) con i quali il cuoco spiazza il palato e si spinge oltre. Per trasformare l’aspetto di un cibo che all’apparenza è irriconoscibile, nella consistenza o nella temperatura oltre che nell’estetica, ma al tempo stesso ricercando una concentrazione che riporti a un sapore quasi ‘più vero del vero’, alla ricerca del sapore assoluto. Si tratta di osare, di andare oltre il figurativo per ambire all’astratto, di provare a essere Picasso, ma con le solide basi di chi sappia disegnare come Raffaello prima. Un ambizioso traguardo con un percorso costellato di improvvisatori e maldestri imitatori di Ferran Adrià.

Tutto questo fa allontanare un ristorante gourmet dalla quotidianità di un pasto casalingo, non c’è dubbio, ma anche dalla ‘normalità’ di un ristorante medio.

Tanto che alcuni si chiedono se questi ristoranti possano essere considerati a parte rispetto al resto della ristorazione. In realtà sempre di ristorazione si tratta, e ristorazione dovrebbe rimanere, con tutti i distinguo del caso. L’ultima parola, indipendentemente da scenografiche presentazioni, la deve avere il palato. Mangiare bene divertendosi e divertirsi mangiando bene senza nessuna dicotomia. Non è un obiettivo facile, anzi è ancora più ambizioso di quello che può avere un ristorante con una cucina più rassicurante, e non a caso questi chef spesso non si sa se definirli ottimi artigiani oppure se siamo già nell’ambito dell’arte. Ai postumi del pranzo l’ardua sentenza. Fonte: Linkiesta, Roberto Magro, 8.02.2021

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