Sin dall’Antica Roma il “tempo grasso” è segnato dalle “frictilia”, antenate dei dolci di questa festa. Oggigiorno di queste specialità – ripiene e non – se ne contano oltre duecento e assumono nomi e caratteristiche diverse di città in città
Con il martedì grasso ha termine il periodo del carnevale. Mi piace ricordare che questo particolare periodo invernale ha sempre avuto un’importanza rilevante per il calendario delle comunità contadine; le quali, più di chiunque altro, hanno caratterizzato il folclore carnevalesco con forme, colori e gusti diversi per ogni zona della nostra Penisola.
Come ogni tradizione che si rispetti, anche il carnevale vuole i suoi riti gastronomici. Sin dall’Antica Roma il “tempo grasso” è segnato per lo più dalla preparazione di frittelle dolci amate da adulti e bambini. Possiamo infatti considerare le frictilia come vere e proprie antenate di epoca romana dei dolci carnevaleschi. Oggigiorno di frittelle – ripiene e non – se ne contano oltre duecento in tutta Italia e assumono nomi e caratteristiche diverse di città in città. Tutte derivanti da tipi di impasti semplici e talvolta molto simili, per via del loro forte valore simbolico caratterizzano i singoli territori alla stregua delle iconiche maschere carnevalesche.
Carlo Petrini A legare le frittelle di ogni dove però, manco a dirlo, vi è un destino comune: la frittura in olio bollente. Una pratica utilizzata già dagli antichi romani (i quali non disdegnavano neppure di friggere in grasso di maiale) in grado di conferire un alto contenuto di grassi e che per questo ben si confà con il periodo di riferimento. In certe circostanze, una volta riemerse in superficie e dopo un’attenta asciugata, a completare queste prelibatezze vi è una generosa spolverata di zucchero a velo o un’immersione nel miele.
Ed ecco che le bugie non possono mai mancare nei carnevali dei Capitan Spaventa liguri e dei Gianduja piemontesi (qui dette anche risòle e accompagnate spesso dai fricieu ripieni), così come tutti i Brighella e i Meneghini lombardi si sentiranno a casa con i chisoi, ciaccier e manzòle. Le Colombine e i Pantaloni veneti invece potranno assaggiare le rinomate fritole oppure i crostoli ma anche i galani, le sassole, i carafoi e le castagnole. Quest’ultimo appellativo è utilizzato anche dai Bartocci umbri (che non disdegnano nemmeno le frappe) e dai Rugantini romani. Spostandosi più a sud i Pulcinella e i Farinella si prepareranno alla quaresima a suon di zeppole e chiacchiere, mentre se chiedete a Giangurgolo vi consiglierà di provare dei fiocchetti e delle genuidde. E neppure i Mamuthones sardi possono rinunciare ai parafrittus (o frati fritti) e ai frisjoli longhi.
Insomma, la tradizione carnevalesca è un elemento identitario delle popolazioni e delle culture che nel corso dei secoli hanno plasmato questa penisola italica. Dunque, l’avvento del carnevale è anche una buona occasione per ricordarci che la diversità gastronomica, linguistica e culturale italiana altro non è che una grande fonte di ricchezza per la nostra nazione. Un’abbondanza in grado di insaporire delle preparazioni e delle ricette che, proprio come le frittelle, differiscono anche solo per il nome con cui vengono chiamate in ogni singolo territorio.
E sebbene fritto sia tutto più buono, o almeno così si dice, sono convinto che se noi iniziassimo a chiamare tutte le frittelle con un solo nome, queste perderebbero anche il loro sapore caratterizzante e sarebbe impossibile distinguere le une dalle altre. Proprio come se togliessimo i colori ad un arlecchino: non sapremmo più distinguerlo da un pulcinella. Fonte: IL GUSTO, Carlo Petrini, 27.02.2022