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Gen 23 2019

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MATERA CAPITALE EUROPEA DELLA CULTURA 2019

Matera, Basilicata, Italy: European Capital of Culture 2019

Matera è capitale europea della Cultura. Un’occasione per scoprire un angolo d’Italia incredibilmente bello e autentico, ricco di storia e prodotti tipici locali ancora poco conosciuti eppure di grande qualità.

Ed è arrivato dagli agricoltori della Coldiretti il primo pranzo da record di Matera capitale europea della cultura 2019 con oltre cinquemila piatti di crapiata” la tipica zuppa contadina della Lucania con legumi misti, grano, peperone crusco e olio d’oliva per raccontare la tradizione della dieta mediterranea che ha garantito all’Italia i primi posti di longevità a livello mondiale.

Matera, capitale della cultura 2019

Il capoluogo della Basilicata  non delude e lascia desiderio di ritornare per rivedere la città dei Sassi con i suoi antichi rioni dal  fascino arcaico, struttura urbana unica al mondo, abitata dal paleolitico ad oggi;  è sito protetto dall’Unesco ed attualmente vi si tengono eventi musicali e  culturali. Nel 2019, sono attesi centinaia di migliaia di turisti e visitatori: la città si sta preparando da tempo per 50 settimane di eventi, tutti volti a diffondere il messaggio che la cultura deve essere accessibile a tutti. “Matera 2019 Open Future”, questo è lo slogan adottato per l’occasione ( qui tutto il programma di Matera 2019)

Il 2 Luglio la città vive la Festa della Madonna Bruna, un rito ancestrale che vuol figurare la rinascita dopo la distruzione.  Al termine della funzione il carro trionfale in carta pesta viene assalito e distrutto.  Grande è la gara per conquistare un simbolo riportato nel medesimo, un angelo, un fiore, un addobbo;  una consuetudine magica che diventa l’occasione per continuare a credere nei propri ideali.

Dove mangiare. Per provare un po’ di cucina lucana a Matera, da provare il ristorante L’Abbondanza Lucana (0039 0835 334574). Inizia con invitanti formaggi locali e salumi locali, seguiti da pasta con funghi e crema al pistacchio. Da provare il cinghiale e la mousse di ricotta.Nella posizione centrale di Piazza Vittorio Veneto si trova il Ristorante Il Cantuccio, una trattoria semplice e vecchio stile con personale gentile e accogliente. Si può scegliere tra un’ampia varietà di formaggi e salumi locali e i peperoni cruschi, essiccati al sole di Senise, un paese vicino.

Dove bere. L’Arturo Enogastronomia è un piccolo locale alla moda per un bicchiere di vino locale la sera, citato anche in un recente articolo dell’Indipendent. È anche una gastronomia: il posto ideale per un panino rustico con prodotti artigianali e un bucchiere di vino. Mood moderno e curioso da Shibuya: di giorno vende musica e caffé, la sera si ascolta musica con dj set e drink .

Mangiare in Basilicata

A pochi chilometri, a Pietrapenta, è visitabile la Cripta del Peccato Originale, considerata la Cappella Sistina della pittura parietale rupestre.  In una  mattinata,   si può visitare nei dintorni anche l’area archeologica di Metaponto, dove tra le rovine spicca il tempio dedicato a Hera (V secolo a. C). Già, ma dove pranzare? A Bernalda, tappa nelle trattorie locali dall’apparenza modesta.   Scoprirete una gastronomia rustica e genuina, antica nelle sue formule contadine e pastorali, piatti casalinghi tramandati da secoli.  Sapori robusti rinforzati dal pecorino e dalla “ricotta tosta”; un trionfo gastronomico di capretto e agnello.   Scamorze e butirru, formaggi a forma di fiaschetta, provoloni e caciocavallo.  Verdure “strascicate” in padella.     Taralli (ciambelle) e “scaledde” (biscotti), i mustazzoli, i fichi imbottiti, l’uva passa. Il tutto inondato dal’Aglianico (rosso) di Basilicata.

La cultura gastronomica lucana di origine agreste e popolare, per secoli, non ha mai contato su una netta distinzione fra primi e secondi piatti, come vengono serviti ai giorni  nostri.  La differenziazione si basava su periodi, brevi, in cui si poteva finalmente mangiare in abbondanza ed erano, a parte le grandi feste come Natale, Pasqua e Carnevale, quelli degli intensi lavori agricoli, quando era il “padrone” a nutrire la manodopera con pasti sostanziosi durante le mietitura, le raccolte e le vendemmie.

La Basilicata è famosa per i suoi Presìdi Slow Food.

Caciocavallo Podolico della Basilicata

Il caciocavallo è il simbolo della tradizione casearia meridionale. Nasce infatti da quella tecnica detta “a pasta filata” che il Sud Italia ha messo a punto nei secoli per garantire conservabilità e salubrità ai formaggi di latte vaccino. La cagliata, ottenuta mediante riscaldamento e coagulazione del latte, subisce una seconda cottura, sino a che diventa elastica e può essere manipolata senza rompersi. Le mozzarelle, le scamorze, i provoloni e naturalmente i caciocavalli sono tutti formaggi ottenuti con questo metodo.

Il Caciocavallo podolico è un formaggio che si presta alle stagionature prolungate. Soprattutto le pezzature grandi (da 4 a 8 kg) possono arrivare perfettamente integre anche a quattro, cinque anni di affinamento. In tal caso al gusto offrono una complessità straordinaria, una gamma di aromi che solo un latte di eccellenza come quello degli animali podolici bradi può garantire.
Molti usano mitigarne la forza gustativa accompagnandolo a miele di castagno o di corbezzolo. Funziona egregiamente, anche se si rischia di non apprezzarne appieno la ricchezza organolettica.
Il Caciocavallo podolico è particolarmente pregiato e si produce con il latte di una razza specifica, la podolica, ancora presente sull’Appennino meridionale. Un tempo era la razza dominante nel nostro Paese, oggi si è ridotta a circa 25.000 esemplari. Le ragioni principali sono due: produce poco latte (anche se di straordinaria qualità) e, per la sua caratteristica rusticità, deve essere allevata allo stato brado o semibrado, mal prestandosi a uno sfruttamento intensivo. Eppure va assolutamente salvaguardata, perché è un presidio naturale del territorio e poi perché i formaggi che si ricavano dal suo latte sono eccellenti.

Il Presidio del Caciocavallo podolico della Basilicata nasce per opera dell’Anfosc, l’associazione che riunisce i produttori di formaggio che allevano gli animali al pascolo e che opera da anni per la riattivazione di tutta la filiera produttiva legata ai formaggi di podolica. Lo scopo è favorire l’allevamento della podolica in Basilicata come razza dalla doppia attitudine, carne e latte incrementando il numero degli allevatori-produttori dotati di caseifici e strutture per stagionare i caciocavalli. Ma per fare tutto questo occorre un presupposto fondamentale: le Podoliche devono ottenere le quote latte necessarie per mettere a norma la produzione e la commercializzazione del caciocavallo. L’auspicio è che altri produttori riescano ad emergere da questa situazione affiancando l’unico che ancora oggi riesce a garantire una filiera completa della produzione.
Area di produzione: comuni dell’Appennino Lucano e della Collina Materana(province di Potenza e Matera).

Fagiolo rosso scritto del Pantano di Pignola

Situato a pochi chilometri da Potenza, il lago del Pantano di Pignola si estende in una ampia conca circondata dai monti della Maddalena, alti oltre mille  metri di altitudine e disposti come un anfiteatro naturale.
Notizie certe sulla presenza di questo specchio d’acqua, sono riconducibili a una stampa del 1702 che posiziona il lago ai piedi dell’abitato di “Vigniola”, nelle immediate vicinanze della chiesa della Madonna del Pantano.
Ma il fagiolo rosso scritto pare si sia sviluppato in questa zona dell’alta valle del Basento ancora prima, introdotto dagli spagnoli di ritorno dalle Americhe. Acclimatato perfettamente alla zona, diventò subito un elemento fondamentale della dieta locale. Ma é in epoca napoleonica che i fagioli della zona diventano un sostegno fondamentale delle famiglie contadine come testimonia la Statistica Murattiana del 1811, relazione statistica voluta da Gioacchino Murat che descrive le condizioni di vita nel Regno di Napoli. Alla fine dell’800 la produzione di fagiolo a Pignola e in tutto il circondario é da primato e alla Terza Fiera Campionaria Intenazionale di Napoli del 1923 partecipano proprio i fagioli di Pignola.
La coltivazione di questo ecotipo di fagiolo trova ancora oggi condizioni climatiche estremamente favorevoli: le temperature massime nei mesi di luglio, agosto e settembre non superano mai i 30°C, mentre l’umidità relativa si aggira attorno al 70%. Anche le caratteristiche del terreno risultano ottimali allo sviluppo del fagiolo, ben drenato, con massimi livelli di produttività dovuti alla sua composizione limosa argillosa. La pianta, rampicante, produce un seme tondo ovoidale, con fondo beige e screziature rosso scure da cui deriva il nome di rosso scritto.La coltivazione ha lasciato il posto nel dopoguerra agli allevamenti di bestiame e i giovani hanno abbandonato progressivamente le campagne andando a lavorare in città o nell’industria chimica sviluppatasi in zona.

Stagionalità: la stagione di raccolta va dalla prima decade di settembre per il fagiolo fresco allo stato ceroso a inizio ottobre per il fagiolo secco da sgranare.

L’Alsia Basilicata (Agenzia lucana di sviluppo e innovazione in agricoltura) ha svolto negli anni passati un lavoro di selezione e caratterizzazione morfologica della semente coinvolgendo tutti i coltivatori rimasti in zona. Oggi i produttori sono riuniti in un’associazione di coltivatori custodi, con un proprio disciplinare di produzione e un marchio che contraddistingue il fagiolo rosso scritto originale.
In cucina grazie alla buccia, molto tenera, è indicato per la preparazione di antipasti e contorni, ma è anche consumato in zuppe, da solo o “maritato” con verdure o carne.
La coltivazione, visti i recenti studi e l’iscrizione all’albo dei prodotti tradizionali, è in lenta ripresa dopo anni di abbandono dovuti sia alla migrazione degli abitanti del luogo sia al cambio delle abitudini alimentari della popolazione, che avevano relegato la coltivazione ormai ai soli orti familiari.
Area di produzione: Comune di Pignola e alcune aree del comune di Abriola sopra i 600m s.l.m.in provincia di Potenza

Oliva infornata di Ferrandina

Le aree storicamente vocate alla coltura dell’olivo in Basilicata sono tre: il Vulture, la bassa Val D’Agri e la Collina Materana. In quest’ultimo territorio l’olivo copre oltre l’80% della superficie coltivabile e la cultivar più diffusa è la majatica, che nei terreni argillosi di questa parte della valle del Basento ha trovato condizioni climatiche favorevoli: sia l’olio extravergine ricavato dai suoi frutti, sia le olive da mensa, “infornate” secondo un procedimento tradizionale molto particolare, sono prodotti ottimi. La majatica rappresenta l’unica cultivar che è consentita per produrre le olive infornate di Ferrandina; con drupe piuttosto grandi, e con un nocciolo piccolo rispetto alla massa della polpa, possiede caratteristiche uniche per questo tipo di procedimento.

La stagione produttiva inizia a dicembre e si protrae per i due mesi successivi. La lavorazione vera e propria prevede una prima scottatura in acqua alla temperatura di 90°C per pochi minuti e una successiva salagione a secco per un breve periodo. Le olive, parzialmente disidratate, sono sistemate su graticci e avviate “all’infornata” negli essiccatoi, dove la temperatura arriva a circa 50°C. La tecnica di lavorazione delle olive infornate di Ferrandina accentua la naturale sapidità dei frutti, ma mantiene al tempo stesso la dolcezza caratteristica della majatica. Si sposano benissimo con i salumi lucani, i pecorini stagionati ma anche con preparazioni più complesse come l’insalata di arance, la zuppa di zucca gialla oppure il baccalà in umido. Sono in ogni caso ottime anche da sole, condite con olio extravergine di oliva, ovviamente di majatica, aglio fresco a pezzetti e scorze di arancia e limone grattugiate.

Stagionalità: La raccolta delle olive destinate alla produzione delle olive infornate di Ferrandina avviena da novembre a gennaio. Le olive, una volta trasformate possono essere consumate fino al raccolto successivo.

Le prime testimonianze scritte sulle olive infornate prodotte a Ferrandina risalgono al 1700, ma tuttora la lavorazione avviene secondo il metodo tradizionale, solo in parte adeguato ai tempi e alle tecnologie moderne. Nessuno usa più i forni a legna per la cottura delle olive: sono stati abbandonati a partire dal 1910 e progressivamente sostituiti da essiccatoi ad aria calda che inizialmente provenivano dalla Germania e che solo in seguito furono costruiti a Napoli sul modello tedesco. Questa modernizzazione permise in breve tempo ai produttori locali di intrecciare rapporti d’affari non solo con le regioni limitrofe ma addirittura con le Americhe, dove arrivarono a spedire ingenti quantità di olive infornate.
Nonostante i miglioramenti tecnologici, che non hanno intaccato la qualità originaria del prodotto, la produzione è in drastica diminuzione. Scarseggia infatti la materia prima: le olive majatica sono destinate quasi totalmente alla produzione di olio e i produttori di infornate a Ferrandina sono rimasti in pochi. In questo momento probabilmente non tutte le olive infornate proposte sul mercato sono di majatica come vuole la tradizione. Il Presidio intende quindi riproporre uno dei prodotti più tipici della Basilicata, lavorato seguendo una ricetta tramandata da generazioni. I produttori aderenti al progetto si impegnano a seguire un rigido disciplinare che, innanzitutto, garantisce l’esclusivo utilizzo di olive majatica.
Area di produzione: Comuni di Accettura, Aliano, Cirigliano, Ferrandina, Gorgoglione, Salandra, San Mauro Forte, Stigliano (provincia di Matera).

Pera signora della valle del Sinni

La presenza della coltivazione del pere nel contesto agricolo del Metapontino è attestato almeno dal Settecento e riportato anche nella Statistica Murattiana che prende in esame le produzioni presenti in epoca ottocentesca.
Le pere facevano parte del paesaggio tipico di questa zona collinare: ai margini dei campi di cereali i pastori erano soliti innestare i perastri selvatici con alcuni ecotipi di pere che venivano poi utilizzate alla raccolta per alimentazione delle loro famiglie e degli animali.
Muscarelle, Muone, Lardere, Sciesciuu, Granete , San Giuvan sono alcune delle varietà locali presenti sul territorio, alcune delle quali, di qualità organolettica elevata, fino agli anni ’50 erano vendute tramite intermediari fino in zona di Napoli.
La pera però più interessante e diffusa nella zona della Val Sinni era la Signora o Signura, delicata nel profumo e nella consistenza, da mangiare al momento della raccolta oppure ottima per la trasformazione in sciroppati, marmellate ed essiccata.
Una pera piccola, di peso variabile da 35 a 60 grammi, di colore giallo alla raccolta e screziature rosso intenso che si sviluppano sull’epidermide con la sovramaturazione, polpa bianca, molto profumata a maturazione

Stagionalità: La raccolta delle pere avviene da luglio, in modo scalare, conservate si possono consumare tutto l’anno.

Le pere sono significativamente scomparse dalle aree agricole del Metapontino quando la meccanizzazione ha fatto il suo ingresso nella coltivazione dei cereali, i campi coltivati sono diventati appezzamenti estesi e gli alberi che li delimitavano sono stati abbattuti per non creare confini o impedimenti alla movimentazione delle macchine agricole.
Le aree a vocazione frutticola si sono invece specializzate in pesco ed albiccocco.
Solo nelle aree marginali, meno interessate da questi fenomeni e dove gli agricoltori e pastori hanno continuato a innestare i peri selvatici con gli ecotipi locali la pera Signora e le altre varietà non si sono perdute.
Oggi un Presidio vuole tutelare gli alberi rimasti sul territorio e promuovere l’avvio di nuove coltivazioni di pera Signora, per dare reddito all’agricoltura locale attraverso la valorizzazione della produzione tradizionale e dei suoi trasformati.
Area di produzione: Nova Siri, Rotondella, Valsinni, San Giorgio, Tursi e Colobraro, provincia di Matera

Pezzente della montagna materana

Nelle foreste della Montagna Materana e del medio Basento, nel cuore della Basilicata, oggi in buona parte comprese nel Parco Naturale di Gallipoli Cognato e delle Piccole Dolomiti lucane, i maiali in un passato neanche troppo remoto pascolavano liberi nel sottobosco e si cibavano di tuberi, radici, castagne, ghiande, funghi. La maggior parte apparteneva a una razza rustica autoctona, oggi quasi scomparsa: il Nero di Lucania. La disponibilità di materia prima di qualità ha fortemente stimolato la produzione, antichissima, di salumi. E tra questi il più particolare è il pezzente. Già nel 1931 la prima edizione della Guida del Touring Club, miniera di informazioni gastronomiche per quel tempo, oggi repertorio di buone cose spesso definitivamente scomparse, consigliava di soffermarsi nel materano per gustare il pezzente. Il nome di questa salsiccia rimanda alle origini della vita contadina, alla necessità di conservare più a lungo possibile la carne e, soprattutto, di utilizzare al meglio ogni parte del maiale. Mentre le parti “nobili”, erano usate dai contadini per la produzione di soppressate, pancette e guanciali, al pezzente erano riservati i tagli poveri. Anche le parti della gola, invase dal sangue all’atto della macellazione, i nervetti, i muscoli più difficili da sminuzzare, lo stomaco, il grasso residuo delle lavorazioni precedenti: tutto quanto era tagliato a striscioline e poi tritato. Alla miscela di carni si aggiungeva peperone dolce di Senise, o peperone piccante, ridotto in polvere, finocchio selvatico, aglio fresco tritato e sale marino. Le stesse operazioni sono ancora compiute oggi in modo assolutamente manuale. La fase più delicata è quella dell’amalgama tra carne e concia, chiamata localmente arricciatura: occorre premere l’impasto energicamente con i pugni chiusi sino a quando non diventi perfettamente omogeneo.
A questo punto si usa prelevare una parte d’impasto e soffriggerla in un tegame (lo sartascnill) per verificare se il sale e gli altri ingredienti siano dosati al punto giusto o se occorra aggiungerne ancora prima dell’insaccatura.

Stagionalità: La produzione del pezzente avviene da novembre a marzo. La stagionatura minima è di due settimane per il consumo in cucina e di tre settimane per il consumo crudo.

La modalità di consumo più comune è a fette con un buon pane casereccio: in questo caso, la stagionatura deve prolungarsi almeno oltre i 20 giorni. Ma il pezzente, in passato, era considerato anche un succedaneo della carne. Si utilizza quindi ancora oggi per preparare il “sugo rosso” con il quale si condisce la pasta fatta in casa, o si unisce a verdure come cicoria, bietole, scarola, e si cuoce, come un saporito secondo piatto, nelle pentole di coccio. Per gli utilizzi di cucina può bastare anche una stagionatura inferiore, di circa 15 giorni.
All’avvio del progetto un solo produttore confezionava ancora il pezzente secondo la ricetta tradizionale con carni provenienti da maiali allevati allo stato brado nei boschi materani; oggi il Presidio ha accolto un secondo produttore che ha deciso di riprendere questa tipica lavorazione ma l’auspicio è che anche altri norcini si uniscano al progetto con l’intento di riportare il pezzente sulle tavole dei consumatori lucani e non solo.

Area di produzione: Comuni di Accettura, Aliano, Calciano, Cirigliano, Garaguso, Gorgoglione, Oliveto Lucano, Stigliano, Tricarico (provincia di Matera).

Ricordiamo che questa terra fin dai tempi dei romani è stata  famosa per la produzione e la lavorazione della carne di maiale.  Il suino veniva fatto crescere in famiglia, dopo la macellazione si divideva a metà fra il proprietario e  il sottoposto. La parte più nobile, i prosciutti, andavano ovviamente al più ricco.  La meno nobile veniva tritata ed insaccata e proprio da qui esce il simbolo alimentare della regione, la lucanica, che da poco ha ottenuto l’IGP

Stranamente il nome lucanica ha varcato i confini regionali e, ancor oggi, la “luganega” resta incrollabile sia in Veneto che in Lombardia.

Forzatamente la prevalenza della cucina si è riversata sui vegetali, resi appetitosi con grande fantasia: legumi, cipolle, patate, verdure fresche insaporite con peperoncino che, se corto e carnoso, viene denominato cerasella, se lungo e sottile, più “incendiario”, diavolicchio.  Da qui piatti come il calzone di verdura e la ciammotta, saporite verdure prima fritte poi stufate. Due vegetali prevalgono: le melanzane preparate in mille modi, ripiene, in agrodolce, al funghetto, in  timballo con salsa, uova sode, mozzarella e i peperoni elaborati alla brace, sott’olio, in versioni  peperonata.  Grazie alla vastità dei pascoli, non mancano freschi ed ottimi prodotti caseari.   Ad Avigliano  si preparano ancora scamorze fresche usando degli antichi stampi di legno, che danno al composto  l’aspetto di donne procaci. E’ una sopravvivenza del culto ellenico di Diana d’Efeso.

Per meglio far conoscere i prodotti tipici della Basilicata si organizzano interessanti eventi come “Naturalmente Lucano” e “Sapori Lucani”.  Grazie all’innovazione e all’assistenza tecnica fornita alle aziende agricole, ormai si coltivano prodotti ortofrutticoli esportati in tutto il mondo: i fagioli di Sarconi,  i peperoni di Senise, nonché frutti di stagione quali  pesche, fragole, albicocche, agrumi.

Girovagando per Grassano, che dall’alto domina le campagne coltivate con cura, gli uliveti e le vigne, restiamo sorpresi ed  incantati dal suono dell’organo della Chiesa Madre, restaurato di recente. Un cartiglio dice che è stato costruito nel 1741. Estasiati ascoltiamo in silenzio, tenendo fra le mani il cartoccio di bocconcini di capretto alla brace appena acquistato.

L’entroterra lucano: vigneti e Natura

L’interno della Basilicata cambia continuamente, è un susseguirsi di  calanchi, dirupi, chiese rupestri che si affacciano su pareti a strapiombo, foreste, uliveti, vigneti, laghi vulcanici. La superficie rivestita a vigneto può essere quantificabile in 4.000 ha.   Fra i vini lucani di pregio si distingue  il “Negroamaro”, l’ ”Aglanico del Vulture” che ha ottenuto la Doc nel lontano  1971 ed è considerato tra i cento vini migliori del mondo.   Vini che lasciano un retrogusto molto prolungato, fresco,  al sapore di more, liquirizia, fichi, ribes, spezie.  A questo aggiungiamo le Igp  “Basilicata” e  “Grottino di Roccanova”.  La Val d’Agri, due milioni di anni fa era un lago, ora i suoi vigneti  donano  il “Terre dell’Alta Val d’Agri doc”Uliveti a perdita d’occhio  e, di conseguenza olio extravergine di oliva che per qualità organolettiche e nutrizionali risultano tra i migliori del Bel Paese. Seguendo le note ritmate del canto della Taranta si rivive la fatica contadina per la raccolta delle olive.

Il Parco del Pollino ha una altitudine di 2000 metri ed ha un  privilegio: quello di possedere  un “fossile vivente” risalente al Cenozoico. Si tratta del Pino Loricato (Pino Leucodermis), letteralmente pino dalla pelle bianca per via del colore della corteccia, una specie arborea che vegeta nell’Appennino calabro-lucano su suoli e rocce calcaree di ere geologiche diverse. Mostra forme contorte e tormentate,  processi riproduttivi faticosi e rari.

Basilicata e leggende…sulle tracce del Graal

La Basilicata ha una storia immensa che scopriamo attraverso  reperti archeologici di altissimo pregio.  Musei da ammirare in tutto il loro splendore che mostrano   il periodo miceneo, la raffinata cultura ellenica,  l’epoca  romana. A Venosa nacque Orazio, chi non ricorda il “carpe diem” ovvero “cogli l’attimo fuggente”?

Le leggende si alternano alla realtà, nessuno lo può e mai lo potrà confermare, ma voce corre che ad Acerenza, in una cripta, possa essere custodito il Sacro Graal.

Antiche e moderne tradizioni anche nell’artigianato tipici lucano: i coltelli di Avigliano, vere opere d’arte, sono conosciuti in tutto il mondo.  Secoli fa le giovani donne  ne ricevevano uno fra i più raffinati dal proprio amato, come pegno d’amore.

Girovagando dall’Ionio al Tirreno in questa piccola e particolare regione abbiamo capito quanto siano grandi la sua anima e le sue tradizioni; sono risuonate familiari le parole del regista Francis Coppola, nato a Bernalda, che considera la Basilicata   un luogo da preservare e, soprattutto,  non mutare. Fonte: InformaCibo e Fondazione Slow Food per la Biodiversità, 23.01.2019

 

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